Birdman

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"La popolarità, la cuginetta zoccola del successo" Valutazione 4 stelle su cinque

di Pietro Muratori


Feedback: 254 | altri commenti e recensioni di Pietro Muratori
mercoledì 4 marzo 2015

 “Birdman” (del già premio Oscar, Alejandro G. Iñárritu) è la storia di una star di Hollywood, Riggan Thomson (Michael Keaton), che tutto deve al suo personaggio Birdman, un supereroe alato, che negli anni gli ha regalato popolarità e fama, ma non la sicurezza di essere un grande attore.
La sfida a se stesso e la rivalsa personale di Riggan, avverrà sul terreno più difficile per ogni attore, il palcoscenico di un Teatro, l’ambizione è quella di portare in scena a Broadway, una pièceteatrale di Carver, dal titolo “Di che cosa parliamo, quando parliamo d’amore?”
L’impresa per Riggan non sarà facile, oltre a firmare la regia, si ritrova squattrinato come pochi, per aver deciso di sostenere la produzione della commedia, le sue finanze sono al verde, “la mia salute è durata più dei miei soldi” è la frase con cui Riggan giustifica la sua rovina.
Ai problemi finanziari, si susseguono quelli di regia, nonostante abbia pochi attori nella compagnia, avrà non pochi problemi da gestire, il cast è formato dalla sua amante Laura (Andrea Riseborough), imprevedibile e vogliosa di maternità, dalla sensuale e insicura Lesley (Naomi Watts), e infine da Mike (Edward Norton), eccentrico e bislacco fidanzato di Lesley, quanto apprezzato attore e ben visto dalla critica, ingaggiato a tre giorni dalla “prima”, in sostituzione del pessimo attore e protagonista della commedia, infortunatosi sul palcoscenico, il quale successivamente lo citerà per danni.
A complicargli la vita, la sua coscienza piumata, la voce (fuori campo) del suo alter ego “Birdman”, che non gli perdona il fatto di aver tolto costume e ali, di aver rinunciato a un facile successo, Birdman IV, martellandolo puntualmente sul suo passato glorioso di divo del cinema.
L’inizio del film è suggestivo, Riggan è alle prese con la voce impietosa della sua coscienza, all’interno del suo camerino “Birdman” cerca di dissuaderlo dalla strada intrapresa, “come siamo finiti qui, questo posto puzza di palle sudate, avevamo tutto …”, una voce pesante come la sua impresa, che cercherà in ogni occasione di riportarlo dentro il suo personaggio.
Il compito di dare un po’ di insano ottimismo e consolazione a Riggan è affidato al suo amico Manager Jacke (Zach Galifianakis), mentre un po’ d’ordine, in questo vorticoso psicodramma del dissociato Riggan, viene riportato dalla figlia Sam (Emma Stone), ex tossica ma la più lucida e schietta del gruppo, a cui è affidata l’organizzazione della produzione, e dalla ex moglie Sylvia (Emy Ryan) che “allevierà” lo psicodramma di Raggin ricordandogli quanto lo avesse amato e di quanto sia stato assente e fedifrago nella sua vita.
Il film che sembra girato in un unico piano sequenza, ha il giusto ritmo per sostenere la continuità narrativa e scenica, alleggerito da un tappeto musicale valido, spesso intrecciato da percussioni jazz che ricordano improvvisazione e il frastuono della mente, come i lunghi e tetri corridoi del Teatro, sembrano essere i labirinti del suo cervello, passaggi usati come vie di fuga, dagli esilaranti quanto drammatici scatti d’ira contro la sua coscienza, e gli innumerevoli scontri con gli attori della sua commedia.
Il genere cinematografico sul Cinema stesso, è stato più volte portato sul grande schermo, dal più recente “The Artist” (di Michel Hazanavicius, 2011), passando per il film nel film, “Effetto Notte” (di F. Truffaut, 1973), ma il film di Iñárritu rievoca su tutti, il fantastico mondo cinematografaro, racchiuso nel set di “8 ½” (di F. Fellini, 1963), mentre il taglio ironico e sarcastico sul mondo di Hollywood e dell’America, sembra esser preso dal fondo del cilindro di Robert Altman (“I protagonisti, 1992; “America oggi”, 1993).
Le scene di questa originale commedia noir, scorrono gradevoli, con i “dentro-fuori” nella testa del personaggio, in cui coscienza ed incoscienza litigano e si rincorrono tra realtà e fantasia, con un filo narrativo incalzante.
I dialoghi con piani sequenza interminabili, grazie alla magia del montaggio, sembrano ininterrotti, danno credibilità alla naturalezza recitativa.
Il cinema si fa teatro, senza interruzioni di ciack, nonostante la storia del film è di appena tre giorni, la scansione temporale è una tempesta perfetta, i vari dialoghi tra i diversi attori, danno rifrazione alla storia e colori diversi a ogni situazione, drammaticamente umana e sempre segnata da un delirio a due.
L’unico punto debole di questo film di Alejandro G. Iñárritu, è quello di averlo infarcito, con una sovrapposizione di temi e spunti da proporre alla riflessione dello spettatore, sembra quasi un’opera prima del regista, anche se coerente ai suoi temi, sempre così umani e intrisi di rapporti personali, ontologicamente validissimi, come nei suoi precedenti film (“21 grammi”, 2003; Babel, 2006; Biutiful, 2010).
Le diverse dicotomie, pur sempre attuali, danno copro al film, tra tutte il dualismo di sempre, tra la genuinità recitativa essenziale del Teatro e la magica suggestione del Cinema, tra minimalismo e grandezza, aprono la strada alla terza via della celebrità, i social network !
Il new motiv è la riflessione su quale sia la misura più autentica che possa veramente attribuire il successo di un attore, una valutazione che può essere ritrovata tra i risultati al botteghino, il metro potrebbe essere la popolarità, “la cuginetta zoccola del prestigio”, oppure nel giudizio più competente e tecnico da ritrovare in un articolo di terza pagina, lasciando quindi, alla critica, il giusto riconoscimento.
L’idea su cosa sia la critica cinematografica per Iñárritu è molto chiara e netta, cinica e spietata, come la frase detta dalla giornalista Tabitha, (Lindsay Duncan) del New York Times a Riggan, alla vigilia del debutto “tu non sei un attore sei solo una celebrità”, una sentenza che non lascia spazio ad altri commenti.
Lo squarcio di iperrealtà, dopo tanto interno teatrale, viene riempito di luce reale quando Riggan si ritrova rocambolescamente fuori dal teatro, e dopo aver perso l’accappatoio incastrato tra le porte di sicurezza, si ritrova in mutande per la via di Broadway, la via sacra newyorkese dei Teatri, metaforicamente nudo a se stesso, dove la folla numerosa in attesa ai botteghini lo filma e lo segue divertita, postato immediatamente su Twitter.
La meschina quanto buffa marcia intrapresa da Riggan, per guadagnare l’ingresso del teatro, in pochi minuti decreterà un successo incredibile di followers, una notorietà che apre la terza via della popolarità, attraverso la curiosità celebrata nei i vari social network.
Questo film che ha fatto il pieno di premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia), è un concentrato di ottima recitazione, la bravura di ogni attore, da Michael Keaton a Edward Norton, passando per Emma Stone, è di indubbia rilevanza, armonia e ritmo riempiono le pagine di questa favola moderna.
Dopo la densità ben stesa per quasi tutto il film, arriva il drammatico epilogo, che incredibilmente porta a un ampio respiro, un esito liberatorio, un finale per questa pellicola del regista messicano che sembra intrecciare, con venature freudiane, illusione e felicità, per poi dare in chiave più popolare che sociale una nuova via per il successo, l’imprevedibile virtù dell’ignoranza.

Pietro Muratori

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