Tarantino sfrutta il suo nono (e sembra penultimo) film per scrivere una sceneggiatura che di fatto è una poesia rivolta al suo più grande amore, il cinema. In particolar modo quel cinema che tante volte ha dichiarato di apprezzare, ossia quello degli anni '60 e '70, compreso quello italiano che viene omaggiato in "C'era una volta a Hollywood" con il dovuto rispetto.
Così ecco che attraverso la sua coppia di protagonisti, interpretati da due eccezionali Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, Tarantino illustra i diversi modi di vivere, lavorare, decollare e cadere nella più celebre fabbrica dei sogni, Hollywood.
Il film offre due narrazioni separate, destinate ovviamente a incrociarsi.
La prima è quella dell’attore-cowboy in decadenza Rick Dalton (DiCaprio) e del suo stuntman Cliff Booth (Pitt): mentre Rick ha una casa lussuosa sulle colline di Hollywood, Cliff vive in una roulotte con il suo cane Brandy; Rick però offre uno scudo a Cliff per difenderlo dal proprio passato con la legge (che sia stato accusato ingiustamente o meno, non ci è dato di saperlo, ma sembra proprio di sì) e questo bisogno reciproco rende la loro amicizia un legame estremamente saldo capace di superare ogni avversità professionale e forse anche qualche invidia.
La seconda storia parallela è invece un episodio di cronaca ben noto: la casa accanto a quella di Rick Dalton è stata infatti recentemente acquistata dall'attrice Sharon Tate (Margot Robbie) e da suo marito, il regista Roman Polanski (per coloro che conoscono la loro storia, quell'indirizzo era 10050 Cielo Drive, il cui cartello stradale viene chiaramente inquadrato nel film). Il 9 agosto 1969, tre seguaci della setta di Charles Manson entrarono nella proprietà e uccisero brutalmente tutti i suoi occupanti: Jay Sebring, Wojciech Frykowski, Abigail Folger e Sharon Tate, che all'epoca era incinta di otto mesi.
Il regista imposta il suo film sviluppandolo nei mesi precedenti il crimine, lasciando che le due storie proseguano parallele e cogliendo nel frattempo l’occasione per illustrare la sua visione della Hollywood dell’epoca, per poi incrociare improvvisamente le due trame nel canonico tarantiniano bagno di sangue finale.
Capolavoro, dunque? In realtà non del tutto…
Ciò che manca in questo film è quel ritmo e quei plot twist che hanno sempre caratterizzato i film precedenti di Tarantino. Sembra quasi che il regista sia stato così preso da coccolarsi nel suo stile cinematografico e nel dipingere il suo quadro, da perdere un po’ di vista ciò che realmente ha fatto funzionare i suoi film migliori e farli apprezzare al grande pubblico. Il risultato è un film che, sebbene godibile, appare rivolto a un pubblico cinefilo un po’ troppo di nicchia e lascia al termine della visione un amaro sapore di occasione mancata.
Non può rimanere deluso invece chi ha sempre apprezzato le colonne sonore scelte da Tarantino. Anche in questo frangente, le musiche scelte sono semplicemente superlative.
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antonio montefalcone
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domenica 22 settembre 2019
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il corso degli eventi e la dimensione cinema
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C'era una volta (a) Hollywood. Cinema e metacinema. Tarantino riflette su come è cambiato il mondo del cinema, ieri e oggi, e immagina come cambiare la Storia attraverso il potere della finzione cinematografica. In un continuo gioco di close-up sul lavoro di chi fa cinema, di rimandi, di parentesi, di flashback, il regista struttura il suo ultimo film in sequenze-mosaico (tipo puzzle) e si appassiona più all'esplosione dei dettagli della sceneggiatura, piuttosto che ad un vero e proprio sviluppo della sua sinossi. Tutto per raccontare e descrivere a modo suo, secondo il suo inconfondibile stile e la sua concezione di cinema (come regno di puri desideri irrealizzabili, universo alternativo dove cambiare destini), il mondo Hollywoodiano del '69 sconvolto dagli efferati omicidi della setta di Charles Manson ai danni dell'attrice Sharon Tate, all'epoca moglie di Polanski.
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C'era una volta (a) Hollywood. Cinema e metacinema. Tarantino riflette su come è cambiato il mondo del cinema, ieri e oggi, e immagina come cambiare la Storia attraverso il potere della finzione cinematografica. In un continuo gioco di close-up sul lavoro di chi fa cinema, di rimandi, di parentesi, di flashback, il regista struttura il suo ultimo film in sequenze-mosaico (tipo puzzle) e si appassiona più all'esplosione dei dettagli della sceneggiatura, piuttosto che ad un vero e proprio sviluppo della sua sinossi. Tutto per raccontare e descrivere a modo suo, secondo il suo inconfondibile stile e la sua concezione di cinema (come regno di puri desideri irrealizzabili, universo alternativo dove cambiare destini), il mondo Hollywoodiano del '69 sconvolto dagli efferati omicidi della setta di Charles Manson ai danni dell'attrice Sharon Tate, all'epoca moglie di Polanski. Ma è un'esplorazione fantasticata, dove la finzione (tipica del cinema) domina (anche letteralmente) sulla Storia reale. In un dietro le quinte dal sapore malinconico e nostalgico, commosso e intimo, pieno com'è di suggestioni visive e graffiti del passato. Al di là di questo l'opera non sembra essere tra le migliori del regista, non tutto è pienamente riuscito, e tra squilibri, debolezze o difetti di costruzione, in fondo in fondo sembra che si areni su qualcosa di superficiale, statico e improduttivo. Ma è pur sempre una pellicola nel complesso interessante e godibile.
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