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Rassegna stampa di Samuel Fuller

Samuel Fuller (Samuel Michael Fuller) è un attore statunitense, regista, sceneggiatore, fotografo, è nato il 12 agosto 1912 a Worcester, Massachusetts (USA) ed è morto il 30 ottobre 1997 all'età di 85 anni a Los Angeles, California (USA).

PIERO DI DOMENICO
MYmovies.it

Il simbolo dei cineasti indipendenti da giovanissimo lavora come strillone per diversi giornali di Boston. Dopo la morte del padre si trasferisce a New York, dove viene assunto come fattorino in un giornale. Nel 1928 come cronista di 'nera' passa a un quotidiano di San Diego. Negli anni successivi Fuller gira gli Stati Uniti scrivendo articoli su storie e protagonisti della cronaca nera. Da questa esperienza trae spunto per scrivere racconti e romanzi che pubblica a partire dal 1931.

DAVE KEHR
The New York Times

THE gruff, cigar-cured voice of Samuel Fuller remains one of the most distinctive in American movies. Born Samuel Rabinovitch in 1912, Fuller began his career as a New York tabloid journalist and pulp novelist but, like many of his colleagues on the lower rungs of the literary trades in the ’20s and ’30s, eventually found himself in Hollywood, pumping out screenplays for B pictures.
Many transplanted writers affected a disdain for the medium that chewed up their work (and gave them nothing but a fat paycheck in return), but Fuller was genuinely fascinated by the power of cinema. For him movies offered a way of continuing journalism by other means, of telling great stories with a punch and immediacy that even newsprint could not equal.
Fuller landed his first directing assignment in 1949, by selling his screenplay for “I Shot Jesse James” to the Poverty Row producer Robert Lippert and offering to throw in his filmmaking services free. ( “Jesse James,” along with Fuller’s two subsequent films for Lippert, “The Baron of Arizona” and “The Steel Helmet,” are available on Criterion’s Eclipse label.) From that point there was no turning back, and Fuller spent the balance of the 1950s feverishly turning out westerns ( “Forty Guns” ), crime films ( “Pickup on South Street” ) and war movies ( “Fixed Bayonets!” ), all shaped by his taste for dramatic extremes, violent conflicts and urgent moralizing.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Regista, scrittore e sceneggiatore, considerato il padre della produzione indipendente americana, è stato autore di film western, polizieschi e di guerra, ma molte sono le esperienze, anche professionali, che aveva intrapreso lungo tutta la sua vita. Importante nella sua filmografia il western "Quaranta pistole" che lo fece conoscere dalla critica europea, che lo apprezzò per lo stile lontano dal patinato mondo hollywoodiano. Piccolo, energico, magro, con una bellissima faccia e un grandissimo sigaro cubano, era un gran chiacchierone, battutista-sloganista ("A Hollywood, o sei un leccaculo o crepi", "In guerra non esistono eroi, ci sono soltanto sopravvissuti"). Era inoltre duro, bellicoso, convinto profondamente della naturale malvagità degli uomini: il più anarchico dei registi americani, capace (dice Bertrand Tavernier) "di distruggere le convenzioni come un visionario, non come un esteta". Nato a Worcester nel 1911, fattorino a dodici anni al "Journal" di New York, cronista di nera a diciassette anni al Sun di San Diego, scrittore pulp e poi sceneggiatore di film, combattente decorato in quella seconda guerra mondiale che rievocò in The Big Red One - Il grande Uno rosso, debuttò come regista nel 1949 con I Shot Jesse James - Ho ucciso Jess il bandito: era un western, appartenente al genere affrontato da Fuller con esagerazione lirica insieme con gli altri generi prediletti, il poliziesco (Underworld Usa - La vendetta del gangster, The Naked Kiss - Il bacio perverso), il thriller (Shock Corridor - Il corridoio della paura), il film di guerra (Merrill's Marauder - L'urlo della battaglia). Ma l'amore no: “Nel cinema e nella vita, le parole ti amo mi si sono sempre strozzate in gola”, il primo film romantico lo girò a settantadue anni. Presto in dissenso con gli Studi, considerato una di quelle vittime del sistema hollywoodiano condannate all'inattività, all'esilio o ai progetti sempre irrealizzati, nel 1965 andò in Francia per un film mai fatto, Les fleurs du mal, e ci restò sin quasi alla fine. I giovani cineasti o critici della Nouvelle Vague lo veneravano. Jean-Paul Godard gli fece recitare la parte di se stesso in Pierrot le fou - Il bandito delle undici; più tardi Wim Wenders lo scelse come interprete d'un gangster ne L'amico americano, dell'operatore ne Lo stato delle cose e del capo dell'agenzia Pinkerton in Hammett; in cambio nel 1984 Fuller scritturò Claude Chabrol come burocrate sprezzante e guardone in Les voleurs de la nuit - I ladri della notte, riservando a se stesso la parte d'un ricettatore ricco, un pirata con l'occhio sinistro coperto da una benda bianca anziché nera, un tipo losco di nome Zoltan il cui massimo divertimento consisteva nel vedere e rivedere alla tv la sanguinosa morte per emottisi della Signora dalle Camelie. Loquace come un piazzista, gran cacciaballe, narratore irresistibile, Sam Fuller ("classico americano primitivo", dice Andrew Sarris) ebbe in regalo dalla cinefilia una seconda esistenza: come Nicholas Ray, come Don Siegel, come Jerry Lewis. La riscoperta dei suoi film, tutti scritti da lui su temi cruciali (tradimento, avidità, intolleranza, crudeltà, violenza, amicizia) pareva un'elegante sottigliezza alla critica a-ideologica e schermica; la sua grande capacità di mestierante incantava i sofisticati come la "semplicità" dei poveri può incantare i ricchi; il vitalismo, l'irrazionalismo compiaciuto, l'atteggiamento mai giudicante, l'adozione della poetica del testimone e del "ciascuno ha le sue ragioni" lo rendevano affascinante per gli intellettuali e i giovani senza più bandiere. Lui ci stava, si capisce: ma Fuller senza America era come il mare senz'acqua, come Clinton senza cerone, come un uovo sodo senza sale, e vivendo in Europa un film bello non l'aveva più fatto. Intorno a lui resistevano dilemmi datati: autore o cineasta di serie B? Fascista o non fascista, razzista o non razzista? Come tanti americani della sua generazione e della sua esperienza, Fuller era stato ferocemente anticomunista, patriottico, bellicista e moralista: definirlo fascista o razzista, dice Bertrand Tavernier, "è una stupidaggine rara, la prova dell'angustia d'un atteggiamento fanatico, cieco... nessun film di Fuller ha mai esaltato la violenza, tutti hanno sempre condannato la brutalità e l'odio". Dei registi americani di serie B Fuller aveva certe caratteristiche, la velocità, i pochi soldi, l'indifferenza verso la perfezione e la passione di raccontare storie, la ricerca sistematica dell'effetto forte. Ma appartengono al cinema d'autore la sua costante ricerca di innovazione, d'originalità e di una nuova visione delle cose, il suo gusto di contraddire i luoghi comuni e disgregare le regole tradizionali, il lirismo e la tenerezza usati come esorcismo della violenza: e soprattutto il suo stile aspro, grafico ("ha la forza dei disegni da storyboard", dice Martin Scorsese), imprevisto nella scelta delle inquadrature, nel movimento dei piani e nei contrasti delle luci, senza nessun debito verso il teatro né verso il romanzo, assolutamente cinematografico.

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Era stato, non ancora ventenne, cronista di nera al "San Diego Sun" (e nel 1963 aveva raccontato le ossessioni giornalistiche per il Pulitzer e per la verità e la ferocia brutale di un mondo che non può non impazzire in un suo capolavoro slabbrato e urlato. Il corridoio della paura, girato in 14 giorni e mito del cinema moderno); era stato in guerra, in fanteria, dal 1942 al 1944, nell'Africa del Nord, in Sicilia, in Normandia e in mezza Europa occupata (e nel 1980 aveva commosso il mondo con il vigore essenziale di Il grande uno rosso, tutte le tappe degli orrori della guerra, in un crescendo che culmina con la scoperta dei forni dei campi di sterminio); era stato anche strillone, fattorino, ghost-writer per svariati scrittori e sceneggiatori, finalmente sceneggiatore (e lo rimarrà, per i propri film, per tutta la sua carriera di regista) e scrittore con il proprio nome (e il suo primo romanzo, La pagina nera del 1946, fu selezionato dai critici americani come miglior romanzo psicologico dell'anno). E nel 1948, con Ho ucciso Jess il bandito, western sgradevole e ossessionato dai primi piani, girato in 10 giorni e già tutto corroso dall'anti-mito, esordisce nella regia. Samuel Fuller, morto giovedì scorso a 86 anni, a Los Angeles. Samuel Fuller, 23 film, una quindicina di sceneggiature, una dozzina di interpretazioni-cammei nelle opere dei cineasti anni Sessanta-Settanta e Ottanta che lo hanno eletto bandiera degli indipendenti. Sempre con un sigaro enorme stretto tra i denti, è stato se stesso in Pierrot le fou di Godard, un rude regista di western in The Last Movie di Dennis Hopper e il comandante del contrattacco in 1941 di Spielberg, un ubriacone in Le sang des autres di Chabrel, un gangster in L'amico americano e il direttore della fotografia in Lo stato delle cose di Wenders. E ancora Wenders ce lo consegna in quella che è probabilmente la sua ultima apparizione, reso fragile dal tempo ma sempre pungente, in La fine della violenza.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Strillone a 12 anni, si dedica al giornalismo, cronista a New York e a San Diego. Viaggiando di città in città sui treni merci, come un barbone, comincia a scrivere storie, che lo portano al cinema in qualità di sceneggiatore. Nella seconda guerra mondiale combatte eroicamente in Africa settentrionale e in Europa. Nel 1948 affronta la regia con Ho ucciso Jess il bandito, un western che indaga su una celebre leggenda arrivando a conclusioni inopinate. Nel film c'è violenza, brutalità, cinismo, il tutto squadernato con una serie incalzante di primi piani. Sarà così, o quasi, per tutta la carriera di un regista fra i più controversi - disprezzati, ignorati, ammirati, esaltati - della storia del cinema. Fuller gira di solito film classificabili come di serie B, a basso costo, senza divi. Uomo di destra, non lesina i giudizi e perfino l'odio verso la sinistra, come in Mano pericolosa (1952), storia di un borseggiatore, che ricevette il Leone di bronzo alla Mostra di Venezia. Era stato, d'altronde, intollerante e intenso in film di guerra come Corea in fiamme (1950) o I figli della gloria (1951). E lo sarà con i due crudi western La tortura della freccia , (1956) e Quaranta (1957). O con i thriller - specialità fulleriana, se mai altre - La vendetta del gangster (1960), Il corridoio della paura (1963), Il bacio perverso (1964). Una perizia tecnica fuori del comune consente a Fuller di elaborare sequenze formidabili, e memorabili (anche se i film nel loro complesso non lo sono): gli ammiratori citano l'apertura di Il bacio perverso (lo scontro fra la prostituta e il manutengolo) e il finale di Cane bianco (1982), quando l'animale impazzito attacca tutti e deve essere abbattuto. È la critica francese che ha messo Fuller all'onore del mondo, e sulla sua scia altri si sono incamminati, soprattutto i giovani, attratti dall'asprezza di un regista che finisce per occuparsi di letteratura e di televisione, perché tenuto spesso ai margini del cinema. Un bel recupero è quello di Il grande uno rosso (1980), un altro, secco film di guerra, senza concessioni alla retorica. Meno efficace è il film di nove anni dopo - l'ultimo finora del regista - Strada senza ritorno, storia atroce di un cantante rock, a Lisbona.

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