Nella sua "Storia del cinema italiano", Lizzani lo definisce acutamente "il grande confessore della piccola borghesia italiana dolcemente addormentata sotto il ventennio". Assieme a Blasetti il più importante regista dell'epoca suddetta, Camerini esordisce dietro la macchina da presa nel '23 con Jolly, clown da circo e tenta la via d'un cinema drammatico-realistico con Rotaie (1929), ove si narrano le drammatiche vicende - a lieto fine - di due giovani disperati. E' solo con l'avvento del sonoro, però, ch'egli individua la sua vena più autentica, dando vita a commedie leggere e levigate, a mezza via fra sentimento e comicità: il suo tocco lo farà paragonare a Lubitsch, dal quale lo divide però la predilezione per storie di ambientazione popolare e piccolo-borghese. L'enorme successo de Gli uomini, che mascalzoni... (1932) spalanca la carriera di attore cinematografico a Vittorio De Sica ed inaugura un cinema all'insegna della grazia e della naturalezza, pur se l'importanza del film risiede nell'essere "metafora tutt'altro che unilaterale d'un momento di ristrutturazione del capitalismo italiano" (S. Grmek Germani). I successivi Darò un milione (1935), Ma non è una cosa seria (1936) , Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939) delineano i temi d'un confronto tra valori degli onesti lavoratori e fatuità delle classi alte: basati su sceneggiature impeccabili (delle quali egli s'occupava in prima persona, anche quando faceva ricorso a dei collaboratori) ed attori perfetti (su tutti, il duo De Sica-Noris), essi costituiscono gli esempi certo più convincenti del filone dei "telefoni bianchi". La carriera di Camerini proseguirà ancora a lungo, con ottimi riscontri di pubblico: ma i titoli per i quali egli resta nella storia della cinematografia indigena sono appunto quelli della "pentalogia piccolo-borghese" (G. C. Castello) degli anni Trenta, nei quali seppe dar voce e gesti alle aspirazioni, ai sogni di un'Italia piccina ed appartata. Notomizzata con bonomia, non disgiunta da una sottile vena di cattiveria.