Per tutti, sarà sempre e soprattutto Sally Bowles, la svagata eroina di Sherwood/Van Druten/ fosse che in qualche maniera incarna la frivola Berlino che si gettava ignara tra le braccia del nazismo.
Guepière un po’ slabbrata e calze a rete imperfette, e occhi troppo grandi con troppe ciglia, unghie troppo lunghe e con troppi colori, un sorriso troppo largo e troppo ardore, Sally Bowies balla e canta la sua disperazione su un palcoscenico fumoso, e per la strada, nelle camere da letto e nei salotti porta la fragilità di ferro di una ragazza che camminerà da sola. A una stazione, dice addio, gira i tacchi e se ne va senza voltarsi, la mano alzata in un ultimo saluto a un destino che sta svanendo. Era il 1972 e Cabaret di Bob Fosse (tratto da I Am a Camera di John van Druten, tratto da Addio a Berlino di Christopher Isherwood) non reinventava solo il musical teatrale e cinematografico, ma regalava a una generazione una delle rare protagoniste femminili in sintonia coi tempi, tra tanti losers imbronciati sulla strada. La ragazza tutta denti e occhi e voce da brivido (che vinse l’Oscar, dopo wssere già stata candidata nel 1969 per Pookie) aveva 26 anni e un pedigree da far tremare i polsi: Liza
Minnelli, nata a Los Angeles nel 1946, figlia di Vincente Minnelli e di Judy Garland (che divorziarono quando lei aveva anni), cresciuta tra un set, una roulotte e un palcoscenico, debuttante sullo schermo a due anni e mezzo in I fidanzati sconosciuti e in teatro a sette anni, iniziando al Palace Theater di New York mentre la mamma cantava Swanee. Se nella sua faccia si mescolavano inestricabilmente le fisionomie della madre e del padre (il viso tondo, la fronte bombata e gli occhi distanti dell’attrice e la bocca e i denti del regista), il sangue non mentiva. Ai tempi di Cabaret, aveva già vinto un Tony Award, aveva cantato al London Palladium, inciso dischi ed era considerata una delle più travolgenti cabarettiste americane. Nel cinema entrò dalla porta principale, non solo per ovvi motivi di discendenza, ma anche perché con i suoi lineamenti irregolari e la sua personalità eccentrica ~ corrispondeva bene al bisogno di “antieroine” dell’epoca. Meno bella ma più grintosa dell’ideale classico cinematografico, e poi ironica fino a farsi male, sommessamente tragica (tranne quando
cantava, allora esplodeva in tutto il pathos doloroso ereditato dalla madre), insicura ma sfuggente a qualsiasi protezione, una che comunque si lasciava avvolgere dalla vita e si buttava senza paracadute (che è probabilmente quello che le è accaduto nella vita vera). Più che aggressiva (come Jane Fonda) o amareggiata (come Faye Dunaway), Liza Minnelli era ostinatamente autonoma e appassionatamente solitaria. Perdeva quasi sempre, almeno qualcosa, l’amore di solito, com’è inevitabile (tranne che in Arturo, l’esilarante duetto col sempre sbronzo Dudley Moore), e non si negava a quel sospetto di autodistruzione caratteristico del mélo (e del cinema Usa anni vo). Sarebbe stata una grande Holly Goolightly (se ai tempi di Colazione da Tiffany non fosse stata troppo giovane) e non avrebbe sfigurato nei panni di Esther Blodgett, il personaggio di Judy Garland in È nata una stella, che aleggia su tutta la sua carriera. Forse fu da lei che imparò a dire addio agli amori perduti o andati a male (il «This is Mrs. Norman Maine» con cui Esther si presenta al pubblico nel finale straziante del film di Cukor) e a tener testa agli uomini irrequieti del cinema moderno, non solo il maestro di cerimonie e l’incostante Michael York di Cabaret, ma anche il tortuoso Albert Finney di L’errore di vivere o “il gatto e la volpe” Gene Hackman e Burt Reynolds di In tre sul Lucky Lady. E soprattutto amò, sposò e inevitabilmente lasciò il nevrotico, imprendibile e irresistibile Robert De Niro in uno dei confronti (e dei film) più grandiosi degli ultimi decenni, New York, New York, quasi un remake non inconsapevole di È nata una stella, amore e solitudine nel cinema americano, dove in certi momenti sembra una copia carbone della mamma, stessa passione, voce più “nera” e un’amarezza più lucida e meno masochista. L’inno alla città dalle mille luci (interpretato da tutti i grandi della canzone americana) resta avvinghiato alla sua voce, alla sua figura ancora esile che svetta sul palcoscenico, ancora una volta in un addio che è anche un’ostinata rivendicazione di libertà e personalità. Qualcosa che aveva probabilmente imparato dal padre, che nel 1976 la volle protagonista del suo ultimo film, Nina, non a caso la storia di una stella del cinema e una tenerissima, affettuosa lezione di vita.
Da Film Tv, n. 3, 2005