1917

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Sam Mendes minimale e ossessivo

di Fabio Ferzetti L'Espresso

I caporali Schofield e Blake hanno una missione (impossibile) da compiere e un solo modo per farcela. Correre. Muoversi più veloci del nemico invisibile e della loro stessa paura, che cresce a ogni metro. Schivare ogni insidia o tirarsene fuori a forza di coraggio, di energia, di fortuna, che in fondo è una forma diversa di energia. Superare il fango, le mine, i cadaveri, le pallottole, le baionette, ma anche la stanchezza, lo scetticismo, l'indifferenza dei loro stessi commilitoni. E anche quando non riescono a evitare i pericoli, devono andare comunque avanti, sempre avanti. Per consegnare quel messaggio a un colonnello che non conoscono, perché la loro vita (o la loro morte) abbia un senso, perché quel battaglione accampato oltre la Terra di nessuno non cada nella trappola tedesca (è la linea Hindenburg ma Mendes lesina volutamente i dettagli storici). Come ogni film basato su un plot minimale e ossessivo, "1917" gioca infatti su due piani distinti e simultanei, uno storico-realistico, che ci porta verso tutti gli altri film dedicati alla Prima Guerra Mondiale, e uno astratto-simbolico, conficcato invece nel divenire dell'audiovisivo contemporaneo, che suscita semmai confronti con l'ultimo grande film bellico inglese, "Dunkirk". Se Nolan però giocava da virtuoso su piani temporali distinti fra terra, acqua e aria, scomponendo l'azione come un quadro cubista, Mendes fa l'opposto. Adotta una prospettiva lineare incollandosi ai protagonisti in tempo (quasi) reale per raccontare tutto in un unico, inarrestabile, rapinoso piano sequenza. Con momenti sicuramente bellissimi, anche grazie alla fotografia di Roger Deakins, che bagna le cose più comuni (un secchio di metallo, un cumulo di terriccio, un campo avvolto dalla nebbia) con la luce miracolosa della prima volta. E altri più ovvi, quando cala la notte e "1917" sembra abolire ogni drammaturgia per contrarsi in esperienza puramente visiva, lambendo come in un'ideale ricapitolazione della storia del cinema la bulimia del videogame. Salvo ritrovare profondità in ogni pausa, ogni incontro, ogni sospensione di quella folle corsa. Fino a evocare una dimensione più metaforica che storica. Perché in fondo tutti prima o poi abbiamo cercato un colonnello Mackenzie, tutti temiamo l'angoscia del troppo tardi. Ed è questo a rendere "1917" così lontano e così vicino.
Da L'Espresso, 26 gennaio 2020


di Fabio Ferzetti, 26 gennaio 2020

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