Ciò che caratterizza “1917” di Sam Mendes (il regista di American Beauty per intenderci) è l’uso di un linguaggio cinematografico completamente nuovo.
Tutti noi abbiamo ancora negli occhi i racconti dei nostri nonni o di chi ha vissuto una guerra, qualunque essa sia: questi racconti non sono sempre le grandi imprese della Storia che leggiamo sui libri, a volte sono semplici episodi, più o meno secondari, oppure storie di vita quotidiana, viste con gli occhi di chi quelle vicende le ha vissute.
Sam Mendes mette lo spettatore nei panni di un soldato della Prima Guerra Mondiale e racconta un episodio, una semplice consegna di un messaggio ad un altro reggimento, facendoci immergere nella realtà della Grande Guerra. La storia è semplice e lineare: il 2° reggimento rischia di cadere in una trappola e due semplici caporali del 7° reggimento, William Schofield e Tom Blake (interpretati rispettivamente da dai giovani George MacKay e Dean-Charles Chapman) devono raggiungere la nuova linea, dove è anche in servizio il fratello di Tom (Richard Madden), e consegnare l’ordine del Generale Erinmore (Colin Firth). Così inizia la storia e termina con la semplice consegna del messaggio al colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch), attraverso il classico sistema delle peripezie (bisogna addentrarsi in territorio nemico con i tedeschi in ritirata).
Ciò che però è fenomenale è il modo in cui questa storia viene narrata: un piano sequenza di due ore, dove si seguono da vicino i due protagonisti, come se lo spettatore fosse il terzo uomo della spedizione: siamo di fronte ad un “iperealismo digitale” che porta alle estreme conseguenze le teorie cinematografiche del Dogma 95, epurandolo però di tutti quei fattori che ne compromettevano la fruibilità al grande pubblico.
Sono due gli elementi che caratterizzano la regia: da un lato un uso impeccabile del digitale, che permette una visione della scena “in prima persona”, dando l’illusione che la camera non stacchi mai per due ore (tranne una sola, funzionale, elissi - quando William perde i sensi), dall’altro Mendes abbandona un classico linguaggio cinematografico per usare le forme, i tempi, i movimenti e molti schemi narrativi, dei videogiochi “sparatutto in prima persona”.
Può sembrare un paradosso, ma quei principi del Dogma 95 (la camera in spalla, il punto di vista in prima persona, le lunghe sequenze) sono state applicate e perfezionate nel mondo videoludico, dove quelle stesse regole sono funzionali all’immedesimazione giocatore-personaggio, elementi che nei film degli ultimi 20 anni troviamo ma solo “accennati” per alcune scene (fa scuola qui “Il Cigno Nero” con le stupende scene di ballo a 360°).
L’obiettivo è quindi raggiunto: far rivivere gli orrori della Grande Guerra, i pericoli, il fango, le distese di cadaveri, il filo spinato, le trincee; il tutto dimostra come, nell’era digitale, si avanzi verso il livellamento dei linguaggi, con la scomparsa delle distinzioni nelle varie aree della comunicazione.
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