Non siamo probabilmente lontani dal vero se ci permettiamo di affermare che Peter Bogdanovich è, prima che un cineasta, un cinefilo. La realizzazione di film, per l'autore americano, rappresenta solamente una parte - sia pure la più importante - del proprio amore per la cultura cinematografica. Lo dimostrano i suoi libri, i suoi scritti, i suoi programmi televisivi, persino il suo seguitissimo blog, dove studia e ricostruisce la carriera di grandi maestri di Hollywood e del cinema europeo.

Ed è proprio un europeo emigrato a Los Angeles che funge da influenza esplicita per l'ultimo, sorprendente e straordinario film di Peter Bogdanovich, Tutto può accadere a Broadway. Ernst Lubitsch è un regista che Bogdanovich conosce molto bene e che ha già fatto parte del bagaglio comico caro al regista di Ma papà ti manda sola?. In questo caso, non solo un noto paradosso diviene dialogo del film (quello sulle noccioline agli scoiattoli e viceversa) ma la sequenza cui si allude è riportata integralmente alla fine della storia (insieme a una sorpresa che non sveleremo).

Tuttavia, è giusto chiedersi se sia sufficiente dare sfoggio di erudizione storiografica o dirsi ispirati ai maestri del passato per fare un buon film. La risposta è no, non è sufficiente - e questo valga anche per quella critica che, al solo comparire della citazione, attribuisce un valore aggiunto al prodotto. Bogdanovich ha ben altra impresa da compiere. Fare un buon film a partire dalla cinefilia, dimostrare come la migliore cultura del passato possa produrre nuovi risultati di valore, citare Lubitsch non solo per il piacere di farlo, ma per dire qualcosa di più su un protagonista (Owen Wilson) che pare a sua volta un uomo costruito da parole altrui e bugie in serie.

Il piacere quasi fisico che si prova nel guardare Tutto può accadere a Broadway, opera per di più di un regista che pareva da tempo perduto al grande cinema, è in fondo il godimento del gesto cinefilo quando - da potenziale - diventa attuale. Tutto può accadere a Broadway è una formidabile commedia e contemporaneamente un saggio scientifico su come far funzionare una commedia. Come a dire: solo conoscendo intimamente la materia puoi lavorarla fino in fondo. Più la cosa si complica, più il grande cineasta la fa sembrare semplice. E sarebbe un dispiacere se il pubblico, magari convinto dalla cattiva estetica che circola nella nostra società, la rubricasse a sciocchezzuola, o la giudicasse meno importante di un film sui disoccupati o sui migranti, solo per citare temi cari alla produzione impegnata.
E alla fine, questa commedia apparentemente innocua, diventa un gesto quasi surrealista, che se ne infischia del periodo che è passato dalla Hollywood anni Settanta (quella in cui Bogdanovich è cresciuto), del postmoderno che gli è succeduto, del "global cinema" di questi anni, dei pericoli di assomigliare a Woody Allen, dell'inattualità dei suoi temi, e scodella un'opera totalmente libera e di pura qualità.

La cinefilia, quella vera, frutto di passione ma anche di studio e dedizione, è una forza emancipatrice, e la citazione (quella vera, frutto della competenza e non della strizzata d'occhio) ne è corollario e nota a margine.
I generi classici a loro volta sono le mappe del desiderio su cui orientarsi, come dimostra anche un film apparentemente opposto come Crimson Peak dove la devozione di Del Toro per il gotico e l'orrore, passando per Poe e Corman, si trasferisce con potenza lancinante allo spettatore e si propone come fantasma d'amore. Così abbiamo in poco tempo due grandi film innescati dalla cinefilia.