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Vita, morte e miracoli

Sacro GRA come contenitore di personaggi.
di Roy Menarini


domenica 22 settembre 2013 - Approfondimenti

In un sol colpo, un documentario italiano è stato per la prima volta selezionato alla Mostra del Cinema di Venezia, e ha contemporaneamente vinto il Leone d'Oro. Roba da stropicciarsi gli occhi, avranno pensato le decine di autori che da anni sfornano il miglior cinema italiano - quello documentario, appunto - e che spesso ibridano i linguaggi senza poter ambire ad altro che a una nicchia di appassionati.
Sebbene dunque sia vero che il film di Rosi riscatta e difende un'intera categoria, è anche oggettivo il contrario: Sacro GRA è un signor documentario, e stacca di chilometri (visto che parliamo di una tangenziale) molti colleghi impegnati nel cosiddetto cinema del reale.

Tutto merito della scrittura e della regia, ovvero due aspetti che gli spettatori comuni tendono a considerare impropri nella non-fiction. Nel reperimento e nella valorizzazione dei soggetti ripresi, si cela invece un grande lavoro di creazione che - se pure non assomiglia a una sceneggiatura tradizionale - si nutre di aspetti e sfumature del racconto; e nelle modalità di messa in scena, si gioca tutta la differenza tra un buon documentario e un cattivo documentario. Si prenda ad esempio, in questo caso, la scelta da parte di Rosi di riprendere gli abitanti del "mostro di cemento" accanto al GRA attraverso la finestra, quasi come fosse frutto di una camera di videosorveglianza installata sulla grondaia. Questa soluzione permette allo spettatore di rispettare una utile distanza, e ai personaggi di vivere se stessi mantenendo alcuni aspetti di oscurità, dubbio e feconda indecisione (Quanto sono grandi gli appartamenti? Il padre e la figlia vivono nella stessa stanza? Come campa l'immigrato che studia da deejay? Da dove provengono queste persone precarie, dal terremoto, dalla Caritas, dalla fine del mondo?).

Abbiamo usato non a caso il termine "personaggio", perché in Rosi - come in Pietro Marcello, Tizza Covi e Rainer Frimmel, D'Anolfi e Parenti e altri - si rigenera paradossalmente una vera galleria di tipi e maschere che né la commedia né il cinema d'autore riescono così spesso a creare. Non è un caso che il nobile decaduto sembri uscito dalla casa di Cetto La Qualunque, che tra le prostitute d'incerta sessualità (così come nell'attesa del miracolo assolato) emerga l'ombra di Fellini, che ovunque tiri un'aria da Garrone e Sorrentino (e forse tra qualche anno parleremo di Sacro GRA e di La grande bellezza come dei due grandi film del decennio su Roma e sull'Italia)... una vera e propria sorgente di figure, che il cinema del reale praticato da Rosi decide di far indagare a noi spettatori, mettendoceli davanti quasi nudi, ma sfuggenti come le anguille catturate dal pescatore filosofo, senza una narrazione alle spalle che ci aiuti a ricostruirne la back story.
Inoltre, ogni personaggio segna un genere, dal comico (gli attori del fotoromanzo) al melodramma (il soccorritore sull'ambulanza). Da appassionato di fantascienza, il preferito di chi scrive è il botanico che combatte l'invasione il coleottero punteruolo: una perfetta parodia di science fiction anni Cinquanta, oltre che una inquietante premonizione nello stile di un film oggi dimenticato, Fase IV: Distruzione Terra di Saul Bass.

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