Tornatore in un’intervista ci dice di aver voluto girare una storia d’amore come un thriller. Prima osservazione: da un’attenta analisi dell’intero film risulta che al contrario il regista ha impostato un racconto a suspance, prendendo lo spunto da un innamoramento progressivo del protagonista, battitore d’asta alieno dai contatti con l’altro sesso che tuttavia si alimenta di immagini femminili virtuali, quali quelle di una immensa raccolta di anonimi ritratti d’autore; il finale, che sorprende, scardina la convinzione di un happy end e sconvolge e “delude” le aspettative, dimostra questo assunto. Fatta questa premessa, i protagonisti della storia, oltre all’esperto di opere d’arte, sono un suo vecchio amico -complice di poco limpide operazioni affaristiche-, un automa che pezzo dopo pezzo viene composto in parallelo con lo sviluppo della vicenda centrale, un ragazzo esperto di meccanica incaricato dell’assemblaggio dei pezzi, ed una donna agorafobica e quindi reclusa in casa. O meglio ciò che è percepibile di lei, la sua voce, che, filtrando attraverso una porta, si veste alle orecchie ed alla mente del battitore d’asta del classico fascino dell’assente-presente, arricchendo visita dopo visita l’immaginario da tempo represso del malcapitato e trasformando un oggetto di interesse in una travolgente ossessione, poi confermata dall’epifania dell’attraente signora. Le interazioni con i vari soggetti coinvolti nella sua avventura proseguono su strade che sembrano convergere verso l’obiettivo finale della conquista, che appare acquisita con il pensionamento dell’attempato collezionista di ritratti, ma…….A questo punto Tornatore lascia il pennello del fine narratore ed impugna il martello distruttivo del colpo di scena che tutto capovolge e confonde, come potrebbe osservare un malato in una sfera terapeutica roteante. Il tempo impazzisce, va e torna indietro, la mente s’inebria e si fa labirintica. La realtà con tutte le sue molteplici incognite vince sulla fantasia, sul desiderio, sui meandri del microcosmo del pensiero e delle emozioni, che nello scontro diventano inerte ferraglia.
I Cahiers du cinema, in un articolo di dicembre 2012, mettono in evidenza alcuni limiti (tare) del cinema d’autore degli ultimi decenni. Tra questi la tendenza dell’Autore ad esibirsi più che a raccontare; l’Autore è talmente consapevole (o meglio convinto) delle proprie qualità che i suoi film diventano auto-commenti del proprio sistema narrativo, la sceneggiatura è usata per affermare se stesso più che per esporre un contenuto; l’immagine va “oltre”, traspare la tendenza a strafare, a dilatare i contorni ai limiti della retorica del narcisismo. Tutto questo ben si attaglia al film di Tornatore, che aveva già rivelato segni premonitori di questa tendenza: dal Pianista sull’oceano al recente Baaria, è evidente la perdita del contenuto equilibrio narrativo dei primissimi film, grande assente, insieme alla magica poesia di Nuovo Cinema Paradiso, nell’ultima fatica del regista (che è anche autore di soggetto e sceneggiatura). Con la conseguenza che eccelle l’eleganza della confezione, il perfezionismo dei dettagli, la precisione dei meccanismi, la rigorosa partitura dello scritto del copione ma a scapito dell’immediatezza, dell’umiltà comunicativa, della capacità di trascinare emozionalmente pur in presenza di una montante storia d’amore. Sicchè il risultato finale pecca di autenticità e denota freddezza, nonostante l’impeccabilità formale dello sviluppo narrativo ed alcuni risvolti psicologici interessanti (come il rapporto tra l’uomo misogino e la donna assente). Inutile sottolineare la grandezza di Geoffrey Rush, uno dei migliori attori viventi, la cui interpretazione vale buona parte del prezzo del biglietto.
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