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Il cinema imprigionato

Cesare deve morire tra le celle di Rebibbia.
di Roy Menarini

In foto una scena del film Cesare deve morire dei fratelli Taviani.

domenica 4 marzo 2012 - Approfondimenti

Il meritato Orso d’Oro che inaspettatamente i fratelli Taviani hanno portato a casa da Berlino illumina di luce propria un film che avrebbe seriamente rischiato l’indifferenza dei media. Grazie anche alla distribuzione di Nanni Moretti, Cesare deve morire si può finalmente vedere su una quarantina di schermi in Italia. Non sono certo numeri da blockbuster, eppure basta recarsi in una di queste sale e sorprendersi dell’applauso spontaneo che sorge negli spettatori appena scorrono i titoli di coda: certamente non una claque da festival.
Perché questo film arriva così diretto al cuore di un pubblico d’essai che da alcuni anni sembrava addormentato e incanutito? Si tratta di uno dei punti di forza del film: Paolo e Vittorio Taviani, riuscendo a spostare la tragedia di Shakespeare dal palco allestito a Rebibbia ai corridoi e alle celle dei detenuti ha moltiplicato e amplificato la già lodevole operazione culturale. Infatti – sebbene esistano numerosi esempi anche recenti di film che narrano l’allestimento in cattività di un evento teatrale – pochi hanno pensato che valesse la pena riportare tutto dallo stage allo screen. E così, invece che adeguarsi supinamente alla tradizione del teatro classico come riscatto educativo per detenuti, ai Taviani interessa rimettere in primo piano il cinema. Rebibbia diventa un set soffocante ma efficacissimo, che lentamente si trasforma – più ancora degli stessi reclusi – in pura scenografia, in uno spazio narrativo perfetto e adeguato alle congiure e agli intrighi dell’antica Roma. Cesare diviene dunque archetipo del potente, prima amato, adulato e poi detestato per eccesso di potere e ambizione. Ogni carcerato trova in Cesare una figura che conosce, dal boss al ras di quartiere, e fa scorrere sangue vivo nelle viscere di un copione che rischiava l’accademia dei teatri di provincia. Come fosse una dimostrazione che il cinema e il teatro condividono il pulsare della drammaturgia ma divergono quanto a forme e modi, Cesare deve morire abbatte l’ultima separazione (il palco) tra rappresentazione e spettatore. Il cinema è una prigione, il set è una cella e chi è recluso – come suggerisce il finale – rischierà, una volta esperita la bellezza dell’arte, di sentire acuito (anziché alleviato) il senso di segregazione dal mondo. E anche noi spettatori sentiamo – persino nel disagio, nella fatica che compiamo per “entrare” in un film così difficile, per comprendere i dialetti dei carcerati, per adeguarci allo spazio claustrofobico della messa in scena – che non possiamo dirci estranei a ciò che si compie di fronte ai nostri occhi. E anche quando i detenuti escono dal ruolo e commentano l’attualità di Shakespeare, non si tratta di forzature pedagogiche. Proprio la loro inadeguatezza a recitare se stessi di fronte alla macchina da presa fa esplodere in maniera plateale che niente di questo film è documentario ma tutto di questo film è vero.

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