Titolo originale | Dal-bit Gil-eo-ol-li-gi |
Anno | 2011 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Corea del sud |
Durata | 118 minuti |
Regia di | Im Kwon-Taek |
Attori | Joong-Hoon Park, Ye Ji-Won, Kang Soo-yeon, Hang-Seon Jang, Tae-won Kwon Byeong-chun Kim, Hyeon-sang Kwon, Woo-hyeok Jeong, Kyeong Jin, Kyeong-jin Min, Su-yun Han, Seung-dae Lim. |
Tag | Da vedere 2011 |
MYmonetro | 3,25 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 10 ottobre 2011
Per prendersi cura della moglie disabile, il funzionario Pil-yong decide di lavorare per una fabbrica che produce Hanji, carta tradizionale coreana.
CONSIGLIATO SÌ
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Pil-yong accetta un lavoro in un progetto che si prefigge lo scopo di rivalutare la tradizione dell'arte dello hanji, mettendola al servizio del restauro degli annali della dinastia Joseon, unico lascito scritto di un'epoca lontana. Nonostante i problemi economici e le difficoltà nel portare a termine il lavoro, Pil-yong viene coinvolto sempre più personalmente dal suo compito, fino a trasformarlo in un percorso esistenziale verso una maggiore conoscenza di sé.
Analogamente a grandi vecchi del cinema, quali Resnais o De Oliveira, Im Kwon-taek è un'instancabile macchina da cinema, che al 101° film si guarda bene dell'arrestare il suo sguardo indagatore sui sentimenti che si insinuano sottopelle tra gli essere umani e sul rapporto tra questi e l'ambiente (o la tradizione). Hanji continua, a suo modo, il discorso intrapreso nelle ultime opere del regista, dedicate al pansori e alla tradizione della Corea; come se volesse concludere una gloriosa carriera girando tutto ciò che è possibile sulla sua nazione e su ciò che rende la sua identità così peculiare. Hanji sta per carta, di un certo tipo, prodotta in Corea con una specifica procedura, tale da renderla resistente nei secoli: al contempo leggera - "al tatto ricorda le guance di un bambino" - e fortissima, capace di durare "mille anni", in un contrasto che è alla base della natura quasi magica del materiale. Il punto di vista di Im Kwon-taek, quasi accostabile all'ultimo Imamura in questo senso, è quello di chi nella difesa dello hanji vede la rivelazione di ciò che c'è ma non si vede, del misterioso e del fantastico celato nel quotidiano, come rivela il crescendo di misticismo che porta allo splendido finale tra le cascate incontaminate. Lo si arguisce quando Im inquadra la luna - l'unica fonte di luce che è possibile fissare intensamente senza conseguenze - e come questa, timida e un po' bizzosa, rischiari solo ciò che vuole del paesaggio sottostante, mentre nella notte della civiltà, in cui la tecnologia dorme, rivive un rito vecchio di secoli e, con esso, la natura profonda e misteriosa di un popolo. "Come il riso è cibo per il corpo, così la carta lo è per l'anima". E lo capisce meglio di chiunque altro Pil-yong, scisso tra il senso di colpa per la condizione della moglie - erede e incarnazione dello spirito dei cartai di Wolgok da lui offesa con il tradimento - e la possibile passione nascente per una documentarista, che è all'esatto opposto della moglie; spregiudicata, scettica e indipendente dove l'altra è immobile, tanto nella realtà del presente che nella metafora della storia. Simbolismi raffinati, quelli scelti da Kwon-taek, che prendono possesso della seconda parte del film, in una escalation spirituale che eleva l'animo nel segno di una levità che solo un anziano saggio ancora in vena di giochi può donare.