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Strade perdute, un noir complesso e vertiginoso, affacciato sugli abissi della follia. Tra i capolavori di Lynch

Un'opera dove non c’è nulla di logico, se non il cinema stesso, che proprio perché è in grado di rappresentare un evento e la sua negazione diventa la sola forma di rappresentazione capace di trovare una sintesi tra realtà e sogno, ragione e follia. Da lunedì 16 gennaio al cinema.
di Roberto Manassero

lunedì 21 novembre 2022 - Recensioni

Di cosa parla Strade perdute? Di un uomo che scopre di essere spiato da qualcuno, che viene arrestato per un omicidio che non sa di aver commesso, che si sveglia in prigione nei panni di qualcun altro. O forse, chissà, di un protagonista che viene sostituito da un altro protagonista, che è lui e al tempo stesso non è lui, come se due universi distinti entrassero in collisione, paralleli e incrociati al tempo stesso, presenti e assenti l’uno all’altro.

Nel film non c’è nulla di logico, se non il cinema stesso, che proprio perché è in grado di rappresentare un evento e la sua negazione, il corpo e il suo sostituto, l’essere qui e anche l’essere altrove (come dimostra l’ingresso da incubo de misterioso uomo alla festa, forse la creazione più spaventosa di tutto il cinema di Lynch), diventa la sola forma di rappresentazione capace di trovare una sintesi tra realtà e sogno, ragione e follia.

Negli stessi anni in cui cominciava la rivoluzione digitale, Strade perdute, ancora girato in pellicola e rispetto a Mulholland Drive e INLAND EMPIRE meno complesso, più diretto e anche più patinato, già mostrava come il destino delle immagini sarebbe stato quello di scomparire, di sovrapporsi cioè l’una all’altra, confuse le une con le altre come i due protagonisti del racconto.
 

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