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Ultimo aggiornamento lunedì 23 novembre 2015
Opera seconda della documentarista Rosendahl, questo è un thriller d'altri tempi, che ricorda i film americani anni '70, costruito con intelligenza, senso del ritmo e un uso narrativo unico dei materiali di repertorio.
CONSIGLIATO SÌ
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Nel 1968, la Groenlandia è territorio danese e la Danimarca è un paese che sta dicendo a gran voce no al nucleare. Il 21 gennaio dello stesso anno, però, un B-52 americano si schianta tra i ghiacci della Groenlandia, nei pressi della base aerea di Thule, con un carico di quattro bombe all'idrogeno. Diciotto anni dopo, il giornalista radiofonico Poul Brink entra in contatto con alcuni ex militari che lavorarono alla bonifica del luogo, con le loro terribili e comuni malattie, e con la resistenza dei politici e dei medici implicati a tornare sull'accaduto per rispondere alla domanda delle domande: cosa ci faceva quel cacciabombardiere nel cielo danese?
Conosciamo tutti la parabola classica del film d'inchiesta, preferibilmente a stelle e strisce: un cronista si appassiona ad una possibile notizia, solleva un velo dopo l'altro finché qualcuno non si presenta con le buone a dirgli: "ora basta", lui non si lascia intimidire e allora anche i nemici si tolgono i guanti, lo seguono, minacciano, al punto che far trionfare il diritto alla pubblica informazione diventa una scelta privata, che può contemplare un sacrificio personale. Abbiamo presente il clima di sospetto e di paura che fa parte del quadro, la quantità di possibili traditori appostati in ogni dove, gli inseguimenti su strada, il pericolo per i famigliari dell'eroe, lo stress, la violenza delle minacce. Anche in Danimarca, racconta Idealisten tutto questo è possibile ed è stato, ma è anche clamorosamente differente, prima di tutto a livello d'immagine.
Ad inseguire Poul Brink sarà dunque una macchina che procede a quaranta all'ora, a minacciarlo sarà lo sguardo di un corridore nel parco all'imbrunire, nessuno alzerà mai la voce o chiamerà la sicurezza, Brink avrà accesso ai corridoi di palazzo e alla porta di casa di chiunque, nel suo paese: ma la sostanza della sua battaglia per la trasparenza d'informazione tra delegati e deleganti, intesa come essenza della moralità della cosa pubblica, non cambia. Se mai si rafforza.
All'opera seconda, dopo Triple Dare del 2006, Christina Rosendhal sceglie di raccontare un idealista irremovibile che si scontra con trame più grandi di lui, legate a momenti cruciali della storia e della politica del mondo occidentale. Se il suo scopo era quello di confezionare un buon film di genere, coinvolgente e inquietante, abbiamo visto di meglio. Tutto lascia però credere (specie i dialoghi tra il personaggio di Brink e la moglie), che la Rosendhal volesse invece mettere soprattutto in immagini quel gap che separa il regime di fiducia che ancora lega i paesi scandinavi ai loro governanti dallo scetticismo, più o meno rassegnato, che è proprio del resto del mondo o quasi: in questo contesto così particolare, la bugia del potente appare come un peccato originale, uno schiaffo ancora bruciante. L'idealismo come un vecchio virus da rivalutare, insomma, contro il quale smettere di vaccinarsi in massa. Il concetto ha dei limiti e così il film, ma la Rosendhal ha portato al cinema un bel capitolo della storia del giornalismo danese e lo ha fatto in maniera credibile e a tratti suggestiva.