Martin Scorsese è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, è nato il 17 novembre 1942 a New York City, New York (USA). Martin Scorsese ha oggi 81 anni ed è del segno zodiacale Scorpione.
Scorsese nasce a Little Italy, quartiere italiano di New York, nel 1942. Sulla strada osserva la violenza, quella degli uomini che sgomitano per arrivare. A casa impara la preghiera, quella sostenuta dalla fede con cui affronta ogni difficoltà. Questi luoghi si trasformeranno in ossessioni nei primi film del regista. Chi sta bussando alla mia porta? (1969) mostra le repressioni, il moralismo, il maschilismo che consegue da un'educazione religiosa troppo rigida. Main Streets (1974) chiarisce invece il personaggio cardine della poetica di Scorsese: un cattolico che, mentre cerca di salvare dagli eccessi chi gli vive intorno, è preda di crisi religiose ed è impacciato con la sua ragazza con cui instaura un rapporto basato sulle regole che gli impone l'ambiente. Il cinema di Scorsese, già da questi primi lavori, si manifesta dinamico, dotato di uno stile visionario capace di eccitarsi soprattutto a contatto con materiale autobiografico.
Amara riflessione è quella che scaturisce da Alice non abita più qui (1974), dove il sogno irrealizzabile di una donna di far carriera nello spettacolo, viene abbandonato per un misero lavoro sicuro: sono le dinamiche sociali che impediscono agli uomini di realizzare i propri desideri. Con Taxi Driver (1976) Scorsese compie un salto in avanti, affidandosi alla sceneggiatura di Schrader che, nel consueto personaggio fallito che guarda impotente un mondo alla deriva, infonde crisi esistenziali - indotte dalla lettura de "La nausea" di Sartre* - che gli procurano un fondo di pazzia insieme al desiderio di riacquisire la purezza primordiale perduta. In seguito Scorsese si distrae dal proprio universo per creare due omaggi musicali: al vecchio mondo del musical in New York, New York (1977), e alla musica della sua generazione, quella di Bob Dylan e Neil Young, ne L'ultimo valzer (1978).
Si tratta di una parentesi. Toro Scatenato (1980), biografia emblematica del pugile Jake La Motta, affronta di nuovo il problema dell'affermazione dell'individuo quando è condizionato dalla mentalità chiusa dell'emigrante italiano, che non riesce ad allargare gli orizzonti neppure quando si trova in un contesto completamente diverso, come quello americano.
Nel frattempo la perizia tecnica di Scorsese si è affinata a tal punto, da non subire condizionamenti neanche dalla macchina produttiva hollywoodiana.
In questa fase Scorsese rinnova anche le sue fonti d'ispirazione, andando ad osservare la capacità degli strumenti mediatici di modellare il pensiero delle persone in Re per una notte (1982), le paure e le alienazioni che suscita la metropoli contemporanea in Fuori Orario (1985), la tensione all'umano di una auspicata divinità moderna ne L'ultima tentazione di Cristo (1989), l'involgarimento della seconda generazione della mafia italo-americana, che conserva l'inclinazione al crimine e alla violenza, ma perde ogni codice d'onore in Quei bravi ragazzi (1990).
Infine, ne L'età dell'innocenza (1993), seguendo un romanzo di Edith Wharton, Scorsese torna alle radici della società americana, al momento della sua formazione, per mostrarne la falsa innocenza, la vocazione ad adeguarsi ai codici comportamentali europei, ma anche la triste e continua tentazione a disfarsene.
Scorsese nasce a Little Italy, quartiere italiano di New York, nel 1942. Sulla strada osserva la violenza, quella degli uomini che sgomitano per arrivare. A casa impara la preghiera, quella sostenuta dalla fede con cui affronta ogni difficoltà. Questi luoghi si trasformeranno in ossessioni nei primi film del regista. Chi sta bussando alla mia porta? (1969) mostra le repressioni, il moralismo, il maschilismo che consegue da un'educazione religiosa troppo rigida. Main Streets (1974) chiarisce invece il personaggio cardine della poetica di Scorsese: un cattolico che, mentre cerca di salvare dagli eccessi chi gli vive intorno, è preda di crisi religiose ed è impacciato con la sua ragazza con cui instaura un rapporto basato sulle regole che gli impone l'ambiente. Il cinema di Scorsese, già da questi primi lavori, si manifesta dinamico, dotato di uno stile visionario capace di eccitarsi soprattutto a contatto con materiale autobiografico.
Amara riflessione è quella che scaturisce da Alice non abita più qui (1974), dove il sogno irrealizzabile di una donna di far carriera nello spettacolo, viene abbandonato per un misero lavoro sicuro: sono le dinamiche sociali che impediscono agli uomini di realizzare i propri desideri. Con Taxi Driver (1976) Scorsese compie un salto in avanti, affidandosi alla sceneggiatura di Schrader che, nel consueto personaggio fallito che guarda impotente un mondo alla deriva, infonde crisi esistenziali - indotte dalla lettura de "La nausea" di Sartre* - che gli procurano un fondo di pazzia insieme al desiderio di riacquisire la purezza primordiale perduta. In seguito Scorsese si distrae dal proprio universo per creare due omaggi musicali: al vecchio mondo del musical in New York, New York (1977), e alla musica della sua generazione, quella di Bob Dylan e Neil Young, ne L'ultimo valzer (1978).
Si tratta di una parentesi. Toro Scatenato (1980), biografia emblematica del pugile Jake La Motta, affronta di nuovo il problema dell'affermazione dell'individuo quando è condizionato dalla mentalità chiusa dell'emigrante italiano, che non riesce ad allargare gli orizzonti neppure quando si trova in un contesto completamente diverso, come quello americano.
Nel frattempo la perizia tecnica di Scorsese si è affinata a tal punto, da non subire condizionamenti neanche dalla macchina produttiva hollywoodiana.
In questa fase Scorsese rinnova anche le sue fonti d'ispirazione, andando ad osservare la capacità degli strumenti mediatici di modellare il pensiero delle persone in Re per una notte (1982), le paure e le alienazioni che suscita la metropoli contemporanea in Fuori Orario (1985), la tensione all'umano di una auspicata divinità moderna ne L'ultima tentazione di Cristo (1989), l'involgarimento della seconda generazione della mafia italo-americana, che conserva l'inclinazione al crimine e alla violenza, ma perde ogni codice d'onore in Quei bravi ragazzi (1990).
Infine, ne L'età dell'innocenza (1993), seguendo un romanzo di Edith Wharton, Scorsese torna alle radici della società americana, al momento della sua formazione, per mostrarne la falsa innocenza, la vocazione ad adeguarsi ai codici comportamentali europei, ma anche la triste e continua tentazione a disfarsene.
Che piaccia o no, che disturbi o annoi, Scorsese siede, con Spielberg, Altman - e un gradino sopra Oliver Stone - nel pantheon cinematografico dell’America di oggi.
Come Spielberg e in parte come Stone, ai suoi meriti di regista aggiunge quelli di produttore - per esempio di Rischiose abitudini (1990) -, di talent scout, di innamorato del cinema pronto a investire piccole fortune per la conservazione del patrimonio cinematografico, di appassionato collezionista. E se talvolta la sua irruenza, la sua frenesia narrativa e la sua crudezza rendono impegnativo il rapporto con il suo mondo, non si può non restare in ammirazione davanti al suo cinema, alla potenza di costruzione e al superbo artigianato dei suoi film, alla grandezza della sua visione. Dall’altra parte, l’insistenza di Scorsese su temi e mondi lontani dalla comune esperienza dello spettatore e comunque “non seducenti” - le “mean streets”, i “bravi ragazzi”, i retrobottega della mafia - mette il suo pubblico nella posizione singolarmente voyeuristica di chi osserva le esplosioni dell’umana violenza nelle sue molte possibili manifestazioni ammirando la forma in cui gli sono proposte e dovendo inevitabilmente respingerne il modello: con un effetto straniante, che si sia nelle strade di New York(Taxi Driver, 1976), nel mondo della boxe -nel film che resta il suo capolavoro, Toro scatenato (1980) - nei tinelli dei mafiosi(Quei bravi ragazzi, 1990), negli uffici di Las Vegas(Casinò, 1995).
Sfido chiunque a sentirsi coinvolto emotivamente dal cinema di Scorsese: mentre si viene travolti da un ammirato disagio. E anche i film che apparentemente sembrano delle eccezioni - Fuori orario (1985), l’episodio di New York Stories (1989), L’età dell’innocenza (1993) - sono altrettanti studi di antropologia umana, analisi di rituali di vite apparentemente regolari che sotto l’occhio della sua cinepresa mostrano l’irregolarità e la cattiveria del gioco sociale.
L’ultima tentazione di Cristo (1988) rappresenta un nobile tentativo da parte dell’ex ragazzino cresciuto dai preti di fare i conti con una visione “liberal” del tema religioso. New York, new York (1977) è un film molto più autobiografico di quanto faccia pensare a prima vista la sua accurata ricostruzione di un momento del nostro passato recente. Re per una notte (1983) è l’analisi (intelligente e sfortunata) della corsa alla notorietà a ogni prezzo. E Cape Fear - Il promontorio della paura (1991) un brutto film senza alcuna giustificazione - se non quella di aver portato soldi nelle casse di Scorsese: cosa non pessima, visto che il piccolo grande regista delle “mean streets” li usa, nonostante ogni riserva, molto bene.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
Stravolgendo la tradizione americana dei film gangster degli anni trenta e lo stesso 'romanticismo' della Grande Famiglia dominata dal Padrino, Martin Scorsese affronta con Good Fellas il discorso sulla mafia americana scegliendo l'ottica di una cronaca di vita. Penetrando nelle pieghe di un mondo occluso, affida il racconto in prima persona, allo stesso giovane protagonista; con una eccezione di inusuale rilievo stilistico: ad un certo punto è la donna a prendere in mano il racconto, quasi sovrapponendosi. In questo racconto di un io in evoluzione, Scorsese (anche nel rispetto di una autobiografia) introduce inventivamente la forma di un'epica straniante, attraverso il muoversi della mdp, con le sue ampie carrellate in panoramica, l'alternarsi dei piani, l'uso del colore intenso, dal rosso violento al blu gelido e con un montaggio sempre più serrato a ridosso dei fatti e dei personaggi. La città e vista con un'impronta dura, nervosa, e, come altre volte in Scorsese, ha un senso inquietante. La secca legge del vivere, in una totale assenza di pietà, sembra togliere ad ognuno dei personaggi il senso della morale, fuori dal clan, mentre all'interno domina una morale spietata, quasi giansenista. Scadenzato come una cronaca, con la memoria che deposita sui fatti una dimensione turbata di rapporti connettivi e di tempi sconnessi, il film segue un percorso a ritroso, scandendo i ritmi dell'azione con l'accentuazione dei rumori, delle voci, delle musiche d'epoca in un manto di registrazioni sonore che ricopre il 'vedibile' segnandolo di tanti punti di interpunzione, quasi a scandire il passaggio cronologico, come in un caleidoscopio. Così la malinconica forza degli eventi si riflette come attraverso frammenti di vetro, nel mutare stesso dei personaggi, nell'appesantirsi delle loro espressioni, sempre più cupe, nel loro vivere schizoide, rintanati dentro case di pessimo gusto., sempre attorno ad una tavola apparecchiata o fuori, di corsa, sempre in preda al sospetto e alla paura. In questa epica familiare, la donna nel suo ruolo di moglie e di amante, segna il confine degli anni, col dissolversi di quella gioia di vivere per cui 'fare il gangster' era stata espressione di potenza e di sicurezza. Si avverte nel trascorrere dei fatti, una ineluttabile stretta finale, uno svuotarsi dell'elemento vitalistico, in un rapporto sempre più solitario. Nella parabola di Henry Hill, Scorsese ritrova il tragico destino del traditore, la inconsapevole 'innocenza' di Giuda dell'Ultima tentazione di Cristo più che la disperazione solitaria del protagonista di Mains Street. I fatti si snodano senza fascino nell'orrore più gelido e con il secco ritmo di After Hours, inseguendo nella finzione il folle rigore di una cronaca. L'apertura del film con la corsa nella notte dei tre uomini in macchina e i sordi rumori del morto chiuso nel portabagagli e poi quell'improvviso tornare indietro negli anni, danno alla diegesi una dimensione di tragedia dell'incoscienza, tra queste vite perdute nel vortice di una mediocrità ricercata per evadere dalla mediocrità. Emblematica e la sequenza finale nella quale il protagonista si chiude nell'anonimato di una persona qualunque, in una morte civile, dopo aver attraversato esultante i sogni nevrotici di una macabra potenza. La realtà si scontra con la irrealtà di una vita vissuta sopra le righe, in una falsa immagine speculare che riflette il niente.
Lo scontro tra realtà e irrealtà, come riflesso di uno specchio infranto, è ancora più evidente nell'Ultima tentazione di Cristo dove tra testimonianza e immaginazione il linguaggio allegorico costituisce la forma perfetta di una visione speculare. Quando Gesù di Nazareth richiama in vita Lazzaro il segno di questa frattura è evidente, e come se le mani di Cristo infrangessero una lastra invisibile per sottrarre dall'aldilà la figura già decomposta del morto. In questo squarcio tremendo Scorsese affronta il problema della credulità e incredulità, dà corpo all'invisibile, ricongiungendo storia a leggenda; recupera i segni del mistero dislocando in un territorio dove i serpenti, i leoni e le fiamme parlano enigmi indecifrabili e mostra il cuore palpitante di Gesù estratto dalle sue stesse mani immerse nel petto. Tutta una iconografia popolare trova così nelle immagini di Scorsese una evidenza magica e reale insieme, una assoluta suggestione emotiva, che lega la parola allegorica al concetto che è la cosa stessa. Il codice di realtà lascia il posto all'immaginario filmico, in un itinerario che recupera più il segno quotidiano de Il Messia di Rossellini che quello epico del Vangelo di Pasolini, mentre la visione dell'ultima tentazione è rappresentata oniricamente da un trasalimento, dove un solo attimo sembra prolungarsi nel percorso di una intera esistenza. Il silenzio drammatico che scende sulle immagini del reale, che spegne le voci della gente ai piedi della croce, ci introduce in un campo visivo astratto pervaso dalla ovattata irrealtà del sogno, dove le frazioni del tempo si estendono a tutta la diegesi.
La tentazione di una vita diversa e la ribellione ai disegni del Padre vengono consumati, in un attimo di eternità, e il ritorno alla croce è il desiderio finale, vissuto con dolore ma con l'appagamento di una scelta liberamente raggiunta. Lo schermo si accende di bianco, nell'impossibilità di raccontare il divino.
In Cape Fear, Scorsese si addentra ancora in questa zona segreta del tempo dell'inconscio, dove il trasalimento sembra estendere le frazioni di secondo a tutta la situazione diegetica e sposta la narrazione in un territorio immaginifico che sospende il reale in una visione allucinatoria. Il corpo tatuato di Max Cady diviene la leggenda esplicita di un personaggio forcluso nel proprio passato, teso verso una vendetta assoluta, con una carica di animalità e razionalità insieme, maturata nel chiuso del carcere, attraverso l'esperienza 'etica dell'abitare nei meandri di un pensiero fisso. Scorsese costruisce questo suo personaggio a tratti scoperti, i segni del tatuaggio sono come i segni di una scrittura esplicita con richiami a una vendetta divina che ricorda la fissità ossessiva del predicatore-assassino dello straordinario film di Charles Laughton La morte corre sul fiume e l'oscenità attrattiva e repulsiva del Père Jules de LAtalante di Jean Vigo. Proprio di quest'ultimo personaggio conserva la carica ambigua delle opposizioni del piacere e del disgusto, scomponendo la libido attraverso insidiose e perverse pulsioni. La lunga sequenza della seduzione di Danielle, la figlia quindicenne di Sam Bowden, mette in relazione la sessualità, insidiata dalla parola e dal gesto con gli elementi contraddittori della paura e della fiducia; Cady assume il ruolo del padre in una persuasiva figura di incesto e la ragazza accetta la seduzione accogliendo il dito nella bocca, come una penetrazione traslata. Nelle sequenze finali, nell'imbarcazione assediata dalla violenza dell'uomo e delle acque, si congiungono i miti della paura e del sesso in una zona mentale dove tutto viene messo in gioco, la passività, l'isteria e la irrefrenabile forza delle pulsioni. L'universo reale si capovolge, in questa torbida visione delle acque pre-natali, transfert nell'inconscio istintuale di Danielle, unica 'memoria' della violenza. Anche quando Scorsese sembra avvicinarsi a temi romantici, come in L'età dell'innocenza è sempre la violenza a dominare i rapporti, inuna Costrizione impassibile che 'uccide', pur lasciando in vita la vittima. Consumato dal Desiderio impossibile per Ellen, questa volta è l'uomo, Archer, che come la preda di un vampiro, si aggira sempre più esangue, vittima senza possibilità di salvezza e vede, come in una lunga agonia, i giorni che gli sfuggono, nelle continue rinunce imposte con la violenza delle buone maniere. Ritorna, trasposta nel tempo e calata in una età romantica, la Imposizione del Clan, la regola di Good Fellas, imposta come qualcosa di astratto, la Legge Superiore che vincola i rapporti di Società. I ricevimenti, i pranzi, le visite divengono rituali di una religione non scritta e costringono a rigorose forme predeterminate, dove gli sguardi, i gesti, le intese chiudono l'esistenza in una morsa fatale, in cui i drammi incruenti lasciano una scia di morti viventi, in un gioco sotterraneo e crudele. Ellen e la sua spregiudicata bellezza, rischiano per un momento di sconvolgere questo precostituito ordine, sono la ciste da espellere dalla luce ottusa di questo cristallo. La città di New York di fine ottocento, nel film respira solo nei pochi scorci visivi esterni, nelle strade e nei parchi e vive dentro gli spazi chiusi dei grandi palazzi, veri scrigni preziosi, addobbati come scenari teatrali, con tende, divani e inutili quadri. Luoghi della Finzione Assoluta, dove proprio i quadri, figurativamente inutili e sontuosi sono i riflessi del già visto, 'specchi' muti, fermi nel tempo, senza possibilità di mutare, metafora di comportamenti che continuamente si ripetono in un'ottica fenomenologica radicale.
Anche Casinò si muove in questa ottica forse con maggior approfondimento. Ogni elemento è visto nell'implacabilità dell'accadimento, quasi in una visione epica dove le contraddizioni non si appiattiscono su risvolti psicologici ma vengono indicati lucidamente ("esposte nella luce migliore" come diceva Brecht) senza che lo spettatore possa identificarsi in esse. L'implacabilità degli eventi precipita in una forma poetica che rende il reale metafora di un reale possibile, in una continua frattura dei fatti, sorpresi tra normalità e aberrazione. Così i personaggi oscillano dalla dimensione di una disperante atrocità a quella di un'apparente malinconica innocenza e questo loro vacillare, in uno spazio dominato dalla feticizzazione del gioco, costituisce un'affascinante rincorsa verso la rappresentazione allegorica tipica, che rinvia alla pura molteplicità, profonda e soggettiva del significato. L'incipit è un gesto 'dato' come accaduto, mentre dovrà ancora accadere e questo stravolgimento del tempo diegetico, costituisce per i protagonisti motivo di rimpianto per non essere stati capaci di interrompere il flusso degli avvenimenti, provocando un senso di nostalgia e, nello stesso tempo, di profezia di quello che Benjamin chiamava il 'carattere distruttivo' del barocco. Ace e Nicky distruggeranno e si muoveranno tra le rovine dei mondi che attraversano alla ricerca di un non-luogo che sublimano nella forma del meraviglioso, questa Las Vegas della memoria, che si rispecchia allegoricamente, nella figura di Ginger, forma luminosa e sensuale che si spegne nell'oscurità di un oggetto negato. In questo universo dove ognuno spia l'altro, dove il controllo diviene una forma ossessiva, l'amore per Ginger e il conseguente matrimonio costituiscono l'atto assoluto, l'azzardo, la scommessa impossibile, il mallarmiano "jeu de dées" in cui mai si vince. Nel suo arco diegetico Casinò può ricongiungersi a Good Fellas per l'appartenenza all'estetica della negatività,, che però non si risolve in una prospettiva nihilista, il niente qui non lega le cose tra loro, e l'immedesimazione non è mai totale da escludere ogni dialettica. Il mondo virtuale di Scortese coincide con l'immagine straniata di uno spazio ermeneutico e si articola in un giudizio che non assolve o condanna ma 'mostra'. La 'negatività' non è assenza di giudizio ma riflessione su un mondo dominato, nella sua enigmaticità, da un pensiero che muove e ne organizza gli strumenti significanti. Come Al di là della vita, rivisitazione di notte della città di New York, un After Hours di oggi, terribile e denso di episodi cruenti, rappresentazione allucinante di dolori, morte e miseria, metafora di un orrore, osservato nella sua irriducibilità. Qui la città assurge a 'dignità metafisica', diviene metafora di una ricerca nel profondo, discesa agli inferi in una notte qualunque, appresso a un'unità sanitaria di emergenza. Il concetto metafisico attanaglia il protagonista, santo laico alla ricerca di una vita da salvare, estrema figura messianica che prende su di sè i dolori del mondo. Scorsese 'mostra una umanità senza scrupoli, con tutte le sue contraddizioni, angelica e demoniaca nello stesso tempo, in una poetica della dissonanza di una esistenza offesa, lacerata, scissa. Come in Gangs of New York dove l'investimento fantasmatico nella Storia è la ratio principale di una scelta dialettica. Storia rivisitata come pratica di scrittura e campo di ricerca che impone la stratificazione di una logica plurale dove tutto accade e tutto si giustifica e si condanna. Come in una 'lettura' brechtiana, una sorta di Opera da quattro soldi innestata su una forma di violenza che si impone nel Gran Teatro, nel Boulevard du Crime, a tutto tondo, ribaltando gli entusiasmi e le miserie, rovesciandone i miti.
La 'parola filmica si sviluppa a partire da se stessa formando una rete di insiemi di cui ogni punto distinto dagli altri si situa in rapporto dialettico, divenendo la forma preminente del significato. The Aviator si elide, il punto di partenza diviene un pretesto, il corso dei pensieri si involve nella pratica e diviene l'imprevisto, la materialità autonoma del pensiero. Howard Hughes è il punto di partenza, l'oggetto di un linguaggio discorsivo, per sviluppare, al limite del volere, la potenza delle contraddizioni, la furia di un'affermazione di sé, in un viaggio nel metareale, che è la Hollywood anni trenta - Paradiso Perduto della spettacolarità artificiale, esaltante amore di cinema - con l'esperienza del doppio, l'esteriorità dei simulacri - amori, sesso, incontri - la moltiplicazione teatrale dei gesti, la follia delle piccole crisi, la frammentazione dei ricordi improvvisi (le mani, la madre e l'acqua la paura delle infezioni, la peste...), l'elisione ripetitiva della parola inceppata.
Ritratto/autoritratto non ritratto, presenza reale/immaginaria, spiazzamento continuo, genialità, paura, Scorsese lavora nell'interstizio delle immagini, lavora nel centro e nel margine, e con il suo protagonista affronta l'immenso, muovendo squadroni di aerei, ripetendo le acrobazie di Hell's Angeles, costruendo modelli di nuovi apparecchi sino al culmine dell'immenso idrovolante e dell'incredibile bolide d'argento che polverizza, nella caduta, case e giardini. Come il pilota di Vol de nuit di Saint-Exupéry, si esalta nel volo, afferra lo spirito dell'avventura, l'ebbrezza dello spazio, non prova "ni vertige, ni ivresse, mais le travail mystérieux d'une chair vivante".
Il cinema come carne viva, il cinema come corpo misterioso, seduzione maschile e femminile, il cinema dei divi e il cinema degli artigiani, radiografia perversa sulla invisibilità del visibile, dissimulazione nel fittizio, dove l'occhio prolunga lo sguardo nelle cose più interne, nelle tracce di una scheggia impazzita, nel sintomo di uno squilibrio. Per Scorsese ancora una lettura dell'America capitalista e di massa, del suo mondo contraddittorio, della crisi economica, della grande avventura dei nuovi cercatori d'oro, nel cinema e nella politica. Tutto viene dissacrato, gli affari, le tangenti, gli imbrogli dell'Alta finanza, anche nel periodo della guerra, le commissioni speciali, la caccia alle streghe. Film politico, lucido, paradossale e al tempo stesso selvaggio e astratto, The Aviator. è l'impossibile possibile, il segno di un 'ritratto' neerotico, fatto di voci, di suoni, di alterità, dove l'inimmaginabile e l'interdetto si legano alla riflessione dialettica, alla favola di un tempo, nient'affatto immaginario, sino ai giorni nostri, al 1976, quando il protagonista si chiude in una crisi forse definitiva, di un attacco ripetitivo, reiterato, continuo "il mezzo del futuro, il mezzo del futuro, il mezzo del futuro..." Le immagini si legano ai volti, agli astratti furori di un Di Caprio innovato, ai dolci isterismi di attrici che simulano eccentriche dive reinventate sulla scia di una nuova Babilonia, di strappi visivi che riempiono di frammenti lo schermo. L'impatto di film d'epoca si dilacera con i ricordi, in un linguaggio inteso come luogo di verità, che disvela se stesso, in una trasparenza quasi astratta e simmetrica.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006
È nato nel 1942 a New York, ed è cresciuto nel quartiere di Little Italy, da cui ha poi tratto ispirazione per molti suoi film. Si è laureato in Cinematografia nel 1964, e poi specializzato nel 1966 alla Facoltà di Cinema della New York University. In questo periodo, ha realizzato diversi cortometraggi vincitori di premi, tra cui La grande rasatura (The Big Shave).
Nel 1968, Scorsese ha diretto il suo primo lungometraggio, intitolato Chi sta bussando alla mia porta? Nel 1970 ha partecipato al documentario Woodstock, come assistente alla regia e come supervisore del montaggio del documentario, e nel 1973 ha ottenuto un grandissimo successo di pubblico e di critica con Mean Streets. Scorsese ha diretto il suo primo documentario, Italoamericani, nel 1974. Nel 1976, con Taxi Driver ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Successivamente, ha diretto New York, New York nel 1977, L’ultimo valzer nel 1978 e Toro Scatenato nel 1980, film che ha ottenuto 8 candidature agli Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Regia.
In seguito, Scorsese ha diretto, fra gli altri, Il colore dei soldi, L’ultima tentazione di Cristo, Quei bravi ragazzi, Cape Fear – Il promontorio della paura, Casino, Kundun e L’età dell’innocenza. Nel 1996, Scorsese ha realizzato con Michael Henry Wilson un documentario di 4 ore, Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, commissionato dal British Film Institute per celebrare il centenario della nascita del cinema.
Nel 2001, è uscito Il mio viaggio in Italia, un documentario in cui Scorsese racconta il suo amore per il cinema italiano. Nel 2002 ha completato un progetto molto amato che desiderava realizzare da tempo, Gangs of New York, vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui un Golden Globe per la Migliore Regia. Nel 2003, la PBS ha trasmesso i 7 documentari della serie Martin Scorsese presents: The Blues.
The Aviator è uscito nel dicembre del 2004, ed ha vinto 5 Oscar oltre a un Golden Globe e a un BAFTA come Miglior Film. Nel 2005, il documentario No Direction Home: Bob Dylan è stato trasmesso dalla PBS nell’ambito della serie American Masters e distribuito in tutto il mondo in DVD .
Il suo film più recente, The Departed, è uscito nel 2006 con grande successo di pubblico e di critica, e ha vinto i premi Directors Guild of America, Golden Globe, New York Film Critics, National Board of Review and Critics per la Miglior Regia, oltre a 4 premi Oscar tra cui quelli per il Miglior Film e la Miglior Regia.
Il suo prossimo film sarà Shutter Island.
Tra i molti premi vinti nel corso della sua carriera ricordiamo il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia (1995), il Premio alla Carriera dell’American Film Insititute (1997), il premio della Film Society of Lincoln Center (1998) e il premio alla Carriera della Directors Guild of America (2003). Scorsese è fondatore e presidente della Film Foundation, un’organizzazione non-profit che si dedica alla conservazione e alla difesa della storia del cinema.
Per questo figlio di siciliani immigrati gli inizi sono difficili. A Little Italy, dove la famiglia vive, Martin soffre d'asma, non ha amici, entra in seminario, ne esce subito, frequenta la scuola di cinema della New York University, ha un paio di occasioni per emergere ma le spreca. Solo quando ha superato i 30 anni riesce a farsi una ragione del suo amore per il cinema e del suo tormentoso legame con le origini italiane e cattoliche. E realizza un film - Mean Streets (1973) - di sicura originalità, violento, percorso dall'ossessione del peccato e interpretato con quasi disperata energia da Harvey Keitel e Robert De Niro. Lo stesso De Niro che disegnerà mirabilmente la figura di un nevrotico reduce dal Vietnam in un film desolato e «sporco» (colori sottoesposti, riprese notturne, interni squallidi, uso insistito della macchina a mano) al quale il festival di Cannes assegna la Palma d'oro: Taxi Driver (1976).
Ossessioni metropolitane, brutalità e violenze - vere o immaginate - attraversano tutta la filmografia di un autore che l'industria fatica ad accettare. Persino nelle commedie, come Re per una notte (1984), con Jerry Lewis e De Niro, o negli incubi ironici e stravaganti, come il delizioso Fuori orario (1985), si avverte il peso di una profonda infelicità. E se in una nostalgica rivisitazione del musical e del dopoguerra americano, come New York, New York (1977) interpretato da una generosa Liza Minnelli e dal solito preciso De Niro, si coglie più malinconia che disperazione, nella cruda biografia del pugile italoamericano Jack La Motta (Toro scatenato, 1980), nuova prodigiosa prestazione di De Niro premiata con l'Oscar, tutte le ansie e i furori di Scorsese esplodono senza ritegno in un bianco e nero contrastato come una attualità. Con Quei bravi ragazzi (1990) siamo dentro la mafia, fra la manovalanza dell'organizzazione, che il regista descrive con scrupolo di verità e un astio apparente da cui traspare una ruvida simpatia.
Di buona, professionale amministrazione Il colore dei soldi (1986), che frutta un Oscar a Paul Newman, l'angoscioso Cape Fear- Il promontorio della paura (1991) e l'accademico L'età dell'innocenza (1993), da Edith Warton. Fuori misura in tutto, provocatorio e (in un certo senso) autodenigratorio, il film scandalo della Mostra di Venezia 1988 - L'ultima tentazione di Cristo - non possiede né la forza dirompente né la profondità che il cattolico Scorsese avrebbe voluto mettervi.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995