Prediletta a suo tempo da Adolf Hitler, che in lei vedeva una sorta di 'musa' del regime nazional-socialista, dopo la II Guerra Mondiale aveva continuato a lavorare, sia pure tra mille difficoltà, approfondendo la sua ricerca documentaristica e cercando di allontanare da sé i fantasmi del suo passato di artista simbolo del regime. Dopo la caduta del regime, ha spesso polemizzato con quanti la volevano inchiodare al suo passato di ritrattista ufficiale del Fuhrer e negare così il valore artistico della sua opera. «A guidarmi fu l'arte, non la politica», soleva dire. Rifiutando di chiedere scusa per la precedente collaborazione col nazismo, la Riefenstahl ha vissuto gli anni successivi al crollo del Terzo Reich come perseguitata dai fantasmi, intrappolata da quella nomea di ritrattista ufficiale del Fuhrer che la rese invisa ai più grandi direttori dei giornali tedeschi fino ai giorni nostri. Ancora oggi, di fronte alla notizia della sua morte, il ministro della cultura tedesco, Christina Weiss, ha voluto ricordare non la bellezza struggente di alcune sue opere, ma le sue responsabilità nella creazione del mito dell'uomo ariano. Aggiungendo poi, secondo uno schema che ha perseguitato la regista per tutta la sua vita, che «ella non ha mai voluto affrontare la questione dell'asservimento della sua opera». Quasi che il giudizio sull'arte debba essere piegato a un principio sostanzialista, e non alle emozioni che essa sa produrre, anche nell'ora della sua morte le polemiche non si sono placate.
La dichiarazione del ministro mostra comunque quanti siano sentite ancora oggi, e in modo assolutamente lacerante, le ferite aperte nell'identità collettiva tedesca dall'esperienza del Terzo Reich. Un'esperienza di cui la Riefenstahl, nella lista nera di tutti i giornali tedeschi per tutto il dopoguerra, non ha mai chiesto scusa, né forse poteva farlo. Il complimento del ministro della propaganda del Reich, Goebbels, («E' l'unica artista che ci capisce») le è rimasta appiccicato addosso tutta la vita e le ha impedito di essere valutata appieno per il valore artistico di quello che ha saputo creare, al di là dell'ideologia criminale cui è stata asservita la sua opera. Nonostante ciò, la documentarista è riuscita a ricordarci, con alcuni eccezionali reportage fotografici sulle tribu Nuba del Sudan (1956) o sul diving nei mari lontani, quante emozioni fosse capace di trasmetterci, indipendentemente dalle cose (un evento politico-sportivo come quello di Monaco o un guerriero sudanese ) che decideva di riprendere.
Da Panorama, 9 Settembre 2003