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Suraj Sharma: «Non sono io ad essere famoso, è Pi. Anche adesso non penso affatto di essere famoso»

L'attore indiano, interprete protagonista di Vita di Pi, arriva a Firenze come ospite d'onore del festival River to River. 
di Giovanni Bogani

domenica 10 dicembre 2023 - Incontri

Ha un bel sorriso aperto Suraj Sharma, l’attore indiano ospite d’onore del festival River to River, in corso a Firenze. È arrivato da Los Angeles con un volo intercontinentale non breve, a Milano ha scoperto che i voli per Firenze erano cancellati, causa nebbia. Si è fatto portare alla stazione, ha acciuffato un treno notturno, è arrivato all’alba in una Firenze deserta. E ha preferito uscire subito, vedere il Duomo e Ponte Vecchio. “La mia fidanzata ed io non dormivamo da diciotto ore, ma c’era una luce rosa meravigliosa che illuminava i monumenti nelle strade deserte: non potevamo lasciarci scappare questa occasione!”.

La ritrovi tutta nella sua gioia di vivere la vitalità, l’energia selvaggia del ragazzino di Vita di Pi, il film di Ang Lee che nel 2012 fu un travolgente successo di pubblico - più di 600 milioni di dollari incassati - e che vinse quattro Oscar, compreso quello per il miglior film. Quel ragazzino era lui, ad appena diciassette anni. Scelto per quel ruolo fra altri tremila, arrivato al cinema senza alcuna esperienza - “oh, sì: avevo fatto l’albero in una recita scolastica, e non ero neanche molto bravo a farlo” - e travolto, in pochi mesi, dallo tsunami di un successo planetario.

Nel frattempo Suraj Sharma ha compiuto trent’anni. Ha interpretato da protagonista The Illegal, ritratto di un lavoratore clandestino in America, premiato al Mumbai Film Festival, e la commedia romantica - per Netflix - La stagione dei matrimoni. A River to River ha presentato Gulmohar, film corale su segreti, bugie, ambizioni, disillusioni familiari: un omaggio a Monsoon Wedding di Mira Nair - Leone d’oro a Venezia - diretto dall’indiano Rahul V. Chittella.

 

Dopo il successo di Vita di Pi, come ha mantenuto il senso della misura, l’equilibrio?
Ahah! Tutti si comportavano come se io fossi famoso, ma io pensavo: ‘Non sono io ad essere famoso, è Pi’. Era il personaggio di Pi ad aver conquistato il pubblico di tutto il mondo, non io. E pensavo: devo solo lavorare, continuare a lavorare. Ed è quello che ho cercato di fare. Anche adesso, dopo un po’ di altri film e serie televisive, non penso affatto di essere famoso, o di essere arrivato a qualche traguardo.

Nel film che presenta a Firenze, Gulmohar, intepreta un giovane che sviluppa una propria startup, ma non trova finanziamenti. Mentre la sua fidanzata ha un lavoro più stabile del suo e guadagna più di lui. È un rovesciamento di ruoli forte. È accettato, in India?
È vero, è un dilemma per il mio personaggio: può accettare di essere economicamente dipendente dalla sua ragazza? Fino a che punto può accettare questo? È una sensazione che provano molti dei miei amici, e in cui mi sono trovato io stesso in alcuni momenti.

Anche lei?
Sì. Quando cerchi, nel tuo lavoro, di osare di più, di fare qualcosa di originale, incontri sempre problemi. Aspetti il lavoro giusto, non guadagni. E la domanda sotterranea è: sono abbastanza uomo, se dipendo economicamente da una donna? Ma i giovani indiani iniziano a pensare che non c’è niente di male in questo.

In Gulmohar una ragazza si innamora di un’altra ragazza. L’omosessualità femminile è oggi più accettata nella società indiana?
Accade un fenomeno curioso: nelle città, metropolitane, moderne, ancora ci sono delle difficoltà ad accettare l’omosessualità; mentre nell’India rurale, arcaica, quella che si ritiene più tradizionale, ma che è anche più naturale, l’omosessualità viene accettata con maggiore semplicità. Senza tanti ideologismi, senza tanti discorsi, ma con un approccio più diretto, più naturale. E sì, comunque qualcosa è cambiato: nel film, la nonna dice di avere provato anche lei, da ragazza, le stesse pulsioni ed emozioni della nipote. Ma di aver rinunciato a vivere il suo amore, per sottomissione alle convenzioni.


A interpretare la nonna è una leggenda del cinema indiano, Sharmila Tagore, appartenente alla famiglia di Rabindranath Tagore - il primo premio Nobel indiano - e protagonista, da giovane, de Il mondo di Apu di Satyajit Ray. Come è stato lavorare con lei?
Sharmila è davvero una leggenda. Sharmila irradia la sua personalità, e tutti avevamo un immenso rispetto per lei. Appena entrava nella stanza, si faceva un silenzio enorme. Ma lei non intimidisce, è calorosa, affettuosa, dolce. Intelligentissima, con un talento immenso. Si era ritirata dal set da dodici anni, e ha deciso di ritornare al cinema con questo film. Per me è diventata un’amica, una confidente: ci scambiamo su Whatsapp le soluzioni delle parole crociate...

Lei ha interpretato, nella serie Homeland, il nipote di un terrorista. Ci sono molti stereotipi per gli attori asiatici a Hollywood?
Credo che oggi ci sia molto più spazio per gli attori dell’Asia del sud di quanto ce ne fosse prima. Detto questo, gli stereotipi sono qualcosa che non puoi cancellare in cinque o dieci anni. Ma il cammino è iniziato: il cammino per dimostrare che siamo capaci di interpretare quei tre o quattro caratteri, ma molto, molto di più.

C’è un regista italiano che conosce, che stima?
Sarò classico: Federico Fellini. Non ho avuto molte occasioni di vedere i registi italiani più contemporanei, non ho visto i film di Paolo Sorrentino, ma so che il cinema italiano, soprattutto quello del Neorealismo, è stato fondamentale per lo sviluppo di tutto il cinema mondiale.

Mi hanno detto che segue molto il calcio... 
Sì! Soprattutto quello italiano! Io giocavo a pallone, e sognavo una carriera da professionista: poi mi sono rotto una gamba. E forse, ripensandoci, è stata la mia fortuna. Ma seguo il calcio italiano, e soprattutto una squadra, della quale sono tifoso.

Quale?
L’Inter! Il mio sogno sarebbe comprare una maglietta dell’Inter in Italia, e magari vedere una partita a San Siro.


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