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Il buco, la rieducazione dell’individuo attraverso la disciplina

Una riflessione su un film che ha fatto molto discutere per gli scenari che apre. Su Netflix.
di Leonardo Magnante, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema

mercoledì 6 maggio 2020 - Scrivere di Cinema

La realtà messa in scena nel film di Gaztelu-Urrutia sembra nascere dalla stessa sfiducia che sta alla base delle celebri avventure del “Don Chisciotte”, germogliate dalla delusione nei confronti del potere e della sua incapacità di gestire un mondo alla ricerca di valori e ideali, scoprendosene privo. L’opera di Cervantes, oggetto che Goreng sceglie di portare con sé nel buco, si rivela uno dei tanti fili conduttori di una vicenda a cavallo tra realtà e allucinazione, tra utopia e disillusione, come le tante peripezie del celebre cavaliere della Mancia, ogni giorno più consapevole dell’inutilità delle proprie gesta. 

La prigionia nel buco risente dei tanti conflitti e tensioni della nostra realtà, in cui i frutti del sistema capitalistico si rivelano nella depersonalizzazione individuale di soggetti alienati e reificati, consumatori “privi di colpe” famelicamente attratti da oggetti sempre più elaborati, da possedere per un mero gusto feticistico anche quando non se ne ha bisogno, tipico del culto che eleva la merce a specchio dei rapporti sociali in cui il soggetto diventa oggetto. 

L’unica modalità per rieducare l’individuo alla riscoperta dell’altro e allo sviluppo spontaneo di una solidarietà dimenticata si materializza attraverso l’uso della disciplina.
Leonardo Magnante - Vincitore del Premio Scrivere di Cinema

Una tecnologia del potere che dimostra l’impossibilità di autogestione collettiva, se non controllata da un sistema strutturato intorno a una relazione asimmetrica tra osservatori e osservati, che limita l’accesso all’informazione e che altro non è che la messa in scena del contesto sociale che, quotidianamente, sperimentiamo, più o meno consapevolmente. 

Il buco sembra rievocare metaforicamente il Panopticon elaborato da Bentham e analizzato da Foucault, struttura che produce relazioni sociali e di potere attraverso la sua architettura, ma che nella realtà contemporanea si dipana attraverso uno spazio sociale divenuto strumento di controllo grazie alla rete e ai nuovi dispositivi di sorveglianza, che non si limita a punire bensì a conoscere i propri soggetti attraverso l’osservazione e il loro studio, perfettamente restituito dai colloqui precedenti alla reclusione nella fossa, nonché dalla presenza di sguardi invisibili che controllano le mosse dei prigionieri. 

Al di là dell’apparenza, il sistema rivela le sue ambiguità, possibili da combattere solo dall’interno, da cui la necessità di un individuo che possa scuotere le menti e capace di sacrificarsi per un bene superiore, un simbolo che si faccia portatore di un messaggio più universale. Ma è davvero necessario che il messaggio abbia un messia? In società in cui simboli divengono icone, il messaggio rischia di sottomettersi al primato del culto egoistico e individualista, strada da cui il film tenta di prendere le distanze a favore di un bene universale, del sacrificio anonimo che eviti l’avvento di un nuovo Ramses II, nome che echeggia spesso nella mente di Goreng, un falso dio che consente la felicità del prossimo attraverso il proprio culto. 


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