Il regista italiano di adozione texana torna con Che fare quando il mondo è in fiamme?. Dal 9 maggio al cinema.
di Fabio Secchi Frau
C'è una sfumata e sottilissima linea narrativa di confine tra finzione cinematografica e realtà. Un sentiero lungo il quale si possono plasmare documentari non convenzionali, costituiti da una visione poetica dell'umanità, ma senza la volontà di graziarla da analisi sociopolitiche. Spesso sono opere a basso budget, raramente finanziate attraverso contributi statali, e realizzate con attori non professionisti. E spesso si basano sull'abilità di costruzione dell'autore che, se da un lato procede con un lavoro meticoloso di morfologia filmica, dall'altra conquista la fiducia e l'amicizia dei soggetti del documentario, durante tutto il processo di ripresa, alla ricerca di una veridicità profonda e dissoluta tanto quanto pericolosa per lo spettatore.
Roberto Minervini è uno di quei registi che percorre maggiormente queste vie del cinema contemporaneo. Le sue divagazioni hanno scelto gli angoli più profondi del backwoods americano e hanno come protagonisti tossicodipendenti della Louisiana o allevatori del Texas. Tutti descritti in modo intimo e lirico, molto vicino alle meravigliose sequenze di Terrence Malick, ma che per contenuti non si vogliono privare della crudezza e dell'apatia del reale.
Un reale che non si tira indietro quando questa gente di palude e di polverose radure, ai margini più estremi della società nordamericana, compie aberranti atti di violenza.