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Il cinema in terapia

Due o tre cose sulla psicanalisi nei film a partire da Jimmy P.
di Roy Menarini

In foto Mathieu Amalric in una scena del film Jimmy P.
Mathieu Amalric (58 anni) 25 ottobre 1965, Neully-sur-Seine (Francia) - Scorpione. Interpreta Georges Devereux nel film di Arnaud Desplechin Jimmy P..

domenica 23 marzo 2014 - Focus

Del nuovo film di Arnaud Desplechin si è parlato parecchio, in termini di ricezione critica. Ma non è della coerenza autoriale del regista né del rapporto tra autore francese e immaginario americano che vorremmo qui parlare. Piuttosto della psicanalisi al cinema.

I rapporti tra inconscio e settima arte sono noti e ben frequentati, e già molti studiosi hanno enfatizzato la prossimità cronologica tra l'emergere dei lavori di Freud e la nascita (e sviluppo) del dispositivo cinematografico. La psicanalisi ha poi fornito, specie nell'epoca delle letture "forti" e metodologiche dei film, molti strumenti di interpretazione, tanto è vero che oggi la bibliografia sull'argomento appare sterminata. Infine, dopo anni di ritirata, e grazie all'apporto di alcuni filosofi, ecco nuovamente la psicanalisi (segnatamente Lacan, anzi i "neo-lacaniani") tornare in auge proprio di recente. Se tutto questo può sembrare oscuro e talvolta minaccioso per il pubblico più vasto, basti dire che il rapporto tra le immagini in movimento e noi che guardiamo un film è, scientificamente parlando, di tipo cognitivo, dunque sarebbe lecito persino affermare che non possiamo trattare il cinema "altro" che psicanaliticamente.

Jimmy P., tratto dalle minuziose ricostruzioni dell'analista, etnografo e antropologo Déveraux, rappresenta solo l'ultimo esempio di una filmografia vasta ed emozionante che riguarda il rapporto medico/paziente, che nelle sue pratiche, e nella sua sostanziale fissità, richiama palesemente il modello film/spettatore. Un conto, dunque, sono i film che sollecitano gangli della psiche e dell'inconscio (da Hitchcock a Bergman la storia del cinema ne è colma), un altro le pellicole che mettono in scena direttamente quella dimensione intima, "parlata" ma quasi irrappresentabile, che è il colloquio in studio. Oltre a Desplechin, forse troppo calligrafico ma comunque attentissimo alla questione e al rispetto dei tempi di analisi, ultimamente si era espresso anche David Cronenberg con il sottovalutato A Dangerous Method che, ben lungi dall'accontentarsi di un affresco storico rarefatto, ha incontrato frontalmente il suo vero modello letterario (Freud) e smontato pezzo per pezzo il suo nemico, anche artistico, Jung.

Nel nostro piccolo, vorremmo anche ricordare la versione italiana di In Treatment, dove ogni puntata mette in scena la seduta quotidiana di un analista (Sergio Castellitto) e di un paziente. C'è chi ha legittimamente biasimato la frontalità degli incontri - sul divano, e dunque senza lettino - presenti nella fiction, eppure (anche grazie a un adattamento creativo di assoluto pregio) la serie diretta da Saverio Costanzo ha saputo mettere in discussione in quello studio l'intero modello del cinema italiano borghese, e rilanciare la psicanalisi in un contesto narrativo nazionale, che ne è sempre più alieno e diffidente (esclusi Bellocchio e Bertolucci, i nostri maestri indiscussi di "cinema psicanalitico").

Insomma, il suggestivo Jimmy P. riapre per l'ennesima volta la partita della psicoanalisi negli audiovisivi, restituendo alla sua complessità ed empatia una disciplina che, proprio come il cinema, ha cambiato il nostro essere per sempre.




Dal 20 marzo al cinema, Jimmy P. è disponibile on demand sia sul sito ufficiale www.mymovies.it/jimmyp/ che sulla piattaforma MYMOVIESWIDE!. .

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