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Non sempre le bugie sono immorali

Il regista Farhadi parla a Berlino del suo film e della situazione politica dell'Iran.
di Giovanni Bogani

L'attrice iraniana Sareh Bayat alla premiere del film Nader and Simin. A separation di Ashgar Farhadi.
Sareh Bayat (44 anni) 6 ottobre 1979, Teheran (Iran) - Bilancia. Interpreta Razieh nel film di Asghar Farhadi Una separazione.

mercoledì 16 febbraio 2011 - Incontri

BERLINO. Applauso molto lungo, e sentito, alla fine della proiezione ufficiale, a Berlino, per il film iraniano di Ashgar Farhadi, La separazione di Nader e Simin, presentato ieri in concorso.

C'è tanto in quell'applauso: l'ammirazione per un regista che, proprio a Berlino, aveva avuto la sua consacrazione nel 2009 con l'Orso d'argento per About Elly, poi candidato all'Oscar. L'apprensione, l'attenzione, la commozione per quanto sta succedendo oggi in Iran. E per quello che stanno vivendo registi iraniani come Jafar Panahi. In prigione, ormai da mesi, condannato a sei anni di reclusione, e a non poter fare film per i prossimi vent'anni. La sua colpa? Progettare film critici verso il regime. C'è un po' tutto questo. Ma c'è, soprattutto, la forza del film, che ti prende l'anima e te la rovescia, mille volte. Fino all'ultima lacrima, l'ultimo desiderio che le cose vadano in modo diverso, l'ultimo sguardo di umanità, di compassione, di comprensione tra esseri umani.

Di Panahi, il regista Ashgar Farhadi parla immediatamente: "Mi addolora molto quello che gli sta accadendo. Credo che tutti i registi del mondo provino dolore per lui. L'ho chiamato, prima di venire qui. Volevo fargli sentire la mia vicinanza, mentre andavo in un luogo nel quale lui non può andare".

Una vicinanza non solo a parole. Anche per Farhadi non è una vita facile. Lo scorso anno, gli era stato proibito di filmare. Gli era stata, in qualche modo, ritirata la licenza di regista. La sua colpa? Le critiche alla politica culturale del governo, per aver isolato e perseguito cineasti come Mohsen Makhmalbaf, Jafar Panahi, Bahram Beizaii, Amir Naderi e Golshifteh Farahani. In particolar modo, aveva espresso la speranza che i registi e gli attori iraniani esiliati all'estero potessero tornare a casa.

Le autorità gli avevano revocato il permesso di girare. Poi, per fortuna, nello scorso agosto, gli hanno permesso di nuovo di fare il film. "Un film che, per me, è un film sull'umanità", dice il regista. "Un film che è per me la continuazione del discorso iniziato con i precedenti. Un film che ha un finale che si può anche vedere come l'inizio di qualcosa. A me piace pensare che lo spettatore, finito il film, continui da solo il viaggio, immagini che cosa accadrà".

La storia è quella di una coppia che si separa: lui vuole rimanere con il padre, malato di Alzheimer. Lei vuole andarsene, iniziare una nuova vita. Però si amano, si rispettano, si sostengono. Quando accade un evento drammatico, dalle conseguenze gravissime, si trovano di nuovo vicini. "Si scontrano anche due visioni della vita, modernità e tradizione – prosegue Farhadi –. Il marito pensa al padre, al passato. La moglie pensa più al futuro. Io, in realtà, non ho esperienza personale di divorzio: ma ho girato molti tribunali, ho visto che cosa succede, quando una coppia in Iran inizia le procedure per la separazione. Oggi, in Iran, nonostante lo si immagini come un paese ultratradizionalista, si divorzia molto".

Farhadi parla anche di uno scontro, nella società. Ma non parla della rivoluzione, dello scontento verso il regime. Parla di un movimento più profondo, più sotterraneo se si vuole: "C'è uno scontro tra le classi povere, molto religiose, e le classi superiori, che vivono la modernità, e vogliono cercare nuove regole di vita". Sugli scontri di piazza nel mondo islamico, è molto, molto cauto: "Tutte le cose che mostrano la volontà della gente sono un buon segno". Chi ha orecchi per intendere, intenda. Ma lui non dice di più.

Si parlava di un evento drammatico, nel film. Un evento che innesca interrogatori, verità e bugie, paure, umiliazioni, la paura di perdere, in un colpo, tutta la propria dignità. "Le bugie... Non sempre non dire la verità è immorale. Ci sono delle bugie morali. Bisogna capire, a volte, perché le persone mentono", dice ancora il regista. E in fondo questo film splende di una bellezza umana, profondissima, perché non ci sono buoni e cattivi, perché ognuno cerca di essere uomo meglio che può. E a volte anche la menzogna si rivela un atto d'amore.

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