Scambi temporali tra presente, passato e futuro della serie.
di Marianna Cappi
Ultima frontiera: il personaggio
Ciò che il mito di Star Trek guadagna consegnando la poltrona del capitano a J.J. Abrams è evidente e vale molto: una genesi, un'origine forte, una giustificazione morale e drammaturgica. Abrams non si limita a fare due passi fra le stelle, nemmeno aggiunge. Riscrive le basi e le riscrive a suo modo, a colpi di conflitti enormi, che investono i sentimenti primari. Alla sintesi, rappresentata dall'equipaggio dell'Enterprise come lo ricordiamo in una sorta di flashback universale al momento dell'entrata in sala, con Jim Kirk capitano e Spock primo ufficiale, si arriva attraverso l'illustrazione di tesi e antitesi: da un lato l'infanzia di Kirk, adombrata dall'assenza del padre, che è morto eroicamente lasciandogli una responsabilità e lanciandogli una sfida; dall'altro l'infanzia di Spock, illuminata dal grande amore per la madre terrestre, che lo rende diverso e deficitario agli occhi della propria gente.
Il punto di riferimento di Star Trek XI è dunque la serie cosiddetta classica o originale, quella in cui Kirk, Spock e "Bones" McCoy sono al centro della plancia e della scena. Più vicino al fantastico che al fantascientifico (non è un trekker e non ne fa mistero, però ha esplorato i "confini" della realtà...), Abrams usa questa lente per interpretare spazi e mondi interiori, difficili da decodificare perché ancora giovani, appena diplomati in qualche accademia interstellare ma già solcati da traumi, aspettative smisurate, rimozioni forzate. La sua ultima frontiera, ancora una volta, è il personaggio. È nella galassia "Uomo" che si sfidano i limiti e si raggiungono le profondità. L'azione –dirompente, mozzafiato, sottolineata da un commento sonoro sinfonico ed efatico- non è mai disgiunta dal conflitto interno al personaggio ma anzi ne è espressione, sua esternazione.
Ritorno al futuro
Cosa, al contrario, l'universo Star Trek perda, nell'affidarsi all'enfant prodige della nuova serialità americana, è meno evidente. Un sapore d'innocenza, fatalmente; qualche regola di condotta –Star Trek XI è una storia d'amore e di vendetta più che di esplorazione e di scoperta-, persino un po' di coraggio, perché è evidente che qui l'inventore di "Lost" gioca sul sicuro, sul terreno della contraddizione temporale, del ritorno al futuro, persino del destino. Ma l'orbita è circolare: il film di Abrams ricorda fra le righe che, se il viaggio nel tempo è un topos di genere, il battesimo televisivo del paradosso temporale si deve proprio a Star Trek t.o.s., ad un episodio in cui Kirk e Spock tornano negli anni Trenta per modificare il corso degli eventi. E così serie televisiva e film continuano il loro mutuo e fortunato scambio di omaggi, per cui, storicamente, il successo di un formato ha permesso di riportare in vita la saga nell'altro formato.
In fondo, Spock e il suo doppio, immagine attuale e immagine virtuale (passata o futura) non innestano un vero e proprio cortocircuito ma incarnano l'idea produttiva e creativa che sta dietro al film: entrare nello spirito della serie originale da un punto di partenza attuale, quasi futuristico, dove i rituali e le ricorrenze, lessicali e visive, che hanno fatto la fama della serie, vengono riproposti con una strizzatina d'occhio, ma dove si pretende allo stesso tempo di raccontare l'origine di questa complicità, andando indietro fino a dove nessun uomo con una macchina da presa era mai arrivato prima.