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La Uerra di Paolo

Intervista esclusiva all’attore, alla prima esperienza da regista.
di Marianna Cappi

Ironia e poesia
Paolo Sassanelli (65 anni) 29 ottobre 1958, Bari (Italia) - Scorpione. Regista del film Uerra.

lunedì 14 settembre 2009 - Incontri

Ironia e poesia
Paolo Sassanelli esordisce dietro la macchina da presa con un cortometraggio fatto di piccoli gesti, nella città vecchia di Bari, nell’immediato dopoguerra. Uerra è un racconto ironico e poetico, girato tra Noci e Casamassima alla fine di aprile 2009 e subito accolto nella selezione veneziana.
Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a passare alla regia?
Era da un po’ che ci pensavo. Guardavo un regista al lavoro e pensavo tra me “io questa scena l’avrei girata così, quest’altra la farei così…”. E poi dovevo ringraziare la mia famiglia. Tutti dobbiamo ringraziare in qualche modo i nostri avi, i nostri genitori. Io non avevo ancora avuto la possibilità di ringraziare mio padre, perché è morto quando avevo trent’anni e quando io avevo 30 anni e lui 60 c’era per forza un po’ di attrito, tanto più che io volevo fare l’attore. Per cui non ho avuto modo, allora, di comunicargli la mia gratitudine. Questo corto, in qualche modo, è l’espressione della mia gratitudine verso di lui e verso mio nonno. Non so scrivere un libro per cui l’ho fatto attraverso un corto, molto personale, molto mio, non senza errori, ma “sincero”, almeno questo è stata la parola che ha usato il selezionatore della mostra di Venezia.
Una storia ambientata nel 1946, in Puglia. Perché?
Ho preso un episodio che coinvolgeva mio padre e mio nonno, insieme. Mio padre aveva rubato i soldi che servivano per comprare quel poco da mangiare che si poteva trovare, per comprare invece un fucile giocattolo. Mia nonna andò su tutte le furie e chiese al marito di andare dal figlio e picchiarlo, per punirlo. Mio nonno era buono, si dichiarava fascista come molti all’epoca ma dentro era tutt’altro. Era anche analfabeta e aspettò per sempre una pensione d’invalidità di guerra che non gli toccò mai, perché era partito volontario. Ma soprattutto era buono con i suoi figli come lo è stato poi con i suoi nipoti (io e le mie sorelle) e quando li ha visti sfilare col fucile giocattolo come un piccolo esercito, non è riuscito ad arrabbiarsi ma ha provato solo una grande tenerezza. Nel finale del cortometraggio, trova il modo di accontentare la moglie senza far del male ai bambini, anzi, accrescendo il loro amore per lui e rispettando la propria natura.

E tu come hai lavorato con i bambini?
Quando li ho visti erano piccolissimi e mi sono spaventato. Stavo lavorando molto come attore e non avevo il tempo di andare a Bari per cui li ho visti in video e li ho scelti così. Ma le immagini mi hanno ingannato e quando li ho incontrati dal vero li ho trovati minuscoli, molto più piccoli di quel che credevo. A quel punto non potevo far altro che giocare con loro e ho giocato a far finta di recitare, ho giocato alla guerra: io ero il capo e loro facevano quello che gli ordinavo, ma sempre nella logica del gioco. Ha funzionato.
Il corto è prodotto da una società giovane, la Mood Film. Come nasce questa collaborazione?
Ho conosciuto Tommaso Arrighi sul set di un corto che ho fatto per lui come attore, La preda (di Francesco Apice, ndr), e ne ho subito intuito l’energia e l’entusiasmo. Allora ho pensato di espormi, di dirgli che avevo un’idea. Mi sono fidato di lui, sapevo che mi avrebbe dato un giudizio onesto. Quindi l’ho scritto, con Antonella (Gaeta, ndr), e dopo un mese gliel’ho fatto leggere, con i sottotitoli, perché è tutto in dialetto barese. A lui è piaciuto molto e quindi siamo partiti per quest’avventura.
C’è un episodio del periodo delle riprese che ti è rimasto in mente o nel cuore?
C’è un episodio segreto. Facevo interpretare a dei ragazzi la parte di due militari americani ed uno di questi era davvero americano, 18 anni, del Kansas, in Erasmus qui a Noci. Nel film, lui entra in una corte dove tutti gridano, col mitra in mano, e urla “Cosa sta succedendo?”. Beh, era il 25 aprile quando abbiamo girato quella scena. Io mi sono reso conto che molti giovani come lui, che avevano 18 anni più di 60 anni fa, sono sbarcati nel nostro paese e in molti sono morti. Mi sono reso conto di questa cosa in un attimo e ho pianto, di nascosto.
Continuerai sulla strada della regia?
Se continuerò sarà per due motivi. Innanzitutto, l’amore che ho per gli attori, che per me sono creature straordinarie. So che molti registi li odiano, ma io capisco profondamente le loro fragilità, i dubbi, le paure e so dove andare a mettere le mani quando parlo con un attore o con un’attrice, so tirar fuori da loro il meglio. L’altro motivo è che ho scoperto che non mi stanco: per i 4 giorni di riprese non ho mai avuto un attimo di noia, avevo una lucidità e un’energia che non ho mai avuto; chi mi conosce sa che mi stanco molto in fretta e in tetro provo pochissimo.

Diventerà più difficile ora stare solo davanti alla macchina da presa?
Assolutamente no, io sono e resto un attore, sono felice di farmi dirigere, di collaborare con il regista di turno, di analizzare con lui la sceneggiatura.
Come hai scelto Dino Abbrescia e Totò Onnis per i due maschi adulti del film?
Ho scelto loro perché sono due amici, il che significa non solo che io potevo contare su di loro, alla mia prima esperienza, ma anche che loro avevano fiducia in me, capivano quello che dicevo, parlavamo lo stesso linguaggio. Quindi per me tirar fuori quelle cose così personali è stato più semplice, non facile ma più semplice.
Ti emoziona l’idea che il tuo primo corto sia stato selezionato e proiettato al festival di Venezia?
Sono buddista da vent’anni e non sono queste le cose che mi emozionano. Quando un amico risolve un problema importante in famiglia, allora mi emoziono. Però ho un grandissimo senso di gratitudine, questo sì, per chi ha selezionato questo lavoro e mi ha dato la possibilità di farlo vedere, di farlo girare, facilitando anche il lavoro dei produttori.
Quali impegni hai per il futuro prossimo?
Farò un film “horror” con i Manetti come produttori, che io adoro, e per regista un giovane ragazzo romano; poi teatro, sicuramente; e poi vorrei mettermi a lavorare per il mio primo lungometraggio, nel quale forse sarò costretto a recitare, ma spero di no, perché non credo di saper fare le due cose insieme.

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