Dieci piccoli indiani
È questo il concetto alla base di Harper's Island, un horror classico in forma seriale (13 episodi) presentato al Roma Fiction Fest, ha la sua forza nella messa in scena, nella fotografia, nei personaggi (tutti di una bellezza imbarazzante) e negli stereotipi di genere. Harper's Island narra di un gruppo di amici e famigliari che si recano su un'isola per celebrare il matrimonio di Henry Dunn e Trisha Wellington. Sette anni prima sulla stessa isola un serial killer, John Wakefield, aveva ucciso sei persone, fra cui la madre di una degli invitati, Abby Mills. Improvvisamente, uno dopo l'altro alcuni dei protagonisti vengono uccisi, e l'ombra di Wakefield si fa più viva che mai.
Prodotta da Jon Turteltaub, che di avventura e di tensione se ne intende, la serie prodotta in Canada e ambientata a Vancouver prevede una o più morti a episodio (nella sigla la voce di una bambina, Madison Allen, recita one by one, uno per uno), intitolati con ironia nera con il suono che emettono le vittime nel momento in cui spirano ("Whap", "Crackle", "Ka-Blam", ecc.), e con un crescendo di atmosfere e ambientazioni sempre più cupe e sinistre, coinvolge lo spettatore in questo gioco al massacro.

E alla fine non ne rimase nessuno
Un luogo delimitato, un numero consistente di personaggi, un serial killer, sono gli stereotipi di genere (prendiamo ad esempio Venerdì 13) che si fondono con il classico di Agatha Christie, originariamente intitolato "E alla fine non ne rimase nessuno", per dare vita ad Harper's Island che è innovativo per forma (un horror seriale) più che per il contenuto. Se si volesse analizzare il concetto di serialità ricorrente, Harper's Island è il format ideale per l'opera di un serial killer. È indubbio che per gli appassionati di genere questa serie tv è imperdibile. In USA e in Canada ha riscontrato un discreto successo. Per ovvi motivi non è prevista una seconda stagione.