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Hollywood contro Washington

Iraq, Vietnam: il cinema contro la Casa bianca. Ma non è sempre stato così.
di Pino Farinotti

Dal presente al passato

lunedì 14 luglio 2008 - Focus

Dal presente al passato
Lunedì scorso, legandomi alle future uscite di film come Stop-loss e a Grace is gone, a titoli recenti come Jarhead, Three Kings, Redacted, rilevavo il ruolo del cinema rispetto al governo americano, soprattutto rispetto al presidente Bush: una presa di posizione critica, violenta e spietata. Come pure lo erano stati quasi tutti i film sul Vietnam, seppure con... odio minore. Insomma nell'era recente il cinema di guerra attaccava chi quelle guerre le aveva volute. La storia e la prospettiva in effetti hanno detto che si trattava di guerre "sbagliate", anche se la prospettiva dell'Iraq è vicina, addirittura presente.

Garante
Ma ci fu un tempo, e ci fu una guerra, dove le cose andarono diversamente. Primo assunto: quel conflitto era sacrosanto. Seppure con qualche ombra, chiamiamola così. Nel 1940, l'Inghilterra e la Francia e gli altri paesi alleati, guardavano all'America. Era incomprensibile la posizione passiva del paese più libero e garante del mondo verso il nazismo. L'amministrazione di Roosevelt era combattuta fra interventisti e non. Prevalevano nettamente i primi, col favore, tacito, del Presidente. La gente era... distratta, intendeva, per lo più, stare tranquilla. Fu allora che Hollywood diede a Washington il più grande assist mediatico di tutti i tempi. Un'indicazione e uno spot. Una vendita. Qualcosa di portata abnorme, esclusiva, e mai esplorata prima. Il cinema vendette... la guerra mondiale.
Nel '40, dunque, dalla Casa Bianca per Hollywood, partì l'input di fare un film che sapesse accendere il tipo di passione che serviva nella circostanza: la passione per la guerra, appunto. Da trasmettere al popolo. La Warner mise a fuoco i punti fermi dello story board. Sarebbe stata la vicenda di Alvyn York, sergente della prima guerra mondiale, massimo eroe americano. A interpretarlo sarebbe stato Gary Cooper, massimo eroe del cinema, dunque ancora più grande dell'altro. Il sergente York racconta la vicenda di questo contadino del Kentuky, mite, timido, ma gran cacciatore e tiratore, obiettore a suo modo di coscienza che, soldato, prende invece coscienza, e dopo averci un po' pensato, seduto su una roccia sotto le stelle, accarezzando il suo cane, decide che combattere è necessario per abbreviare e vincere una guerra e salvare così delle vite. Al fronte compie azioni umanamente impossibili, uccide quaranta nemici col fucile e fa prigioniere due intere compagnie con l'aiuto di pochi subalterni. Le metafore c'erano tutte, il dolore della decisione, la conversione, l'azione eroica sovrumana che faceva balenare la grazia con tanto di ammiccamento a un intervento superiore. Gary Cooper, il papà magnifico, il marito perfetto, l'amico affidabile, avrebbe portato per mano l'America in guerra. Convinta. Non ci sarebbe mai stata nei decenni a venire, un'agenzia capace di concepire e produrre uno spot più efficace e sofisticato, e perfetto. Poi, nel dicembre del '41, arrivò un altro assist a togliere le ultime castagne dal fuoco, l'attacco giapponese a Pearl Harbor. Non c'era bisogno d'altro. Naturalmente molte migliaia di figli americani che avevano visto Il sergente York, mandati in Europa e nel Pacifico, non tornarono. Il cinema era importante.

Marines
Quella guerra, come detto, si rivelò giusta. L'America affrontò, e sconfisse, tre regimi in una volta sola, il fascismo, il nazismo e l'imperialismo. Successivamente il cinema si mosse in grande stile e naturalmente ci mise del suo dispensando mito e spettacolo, e l'enfasi della predestinazione. Le centinaia di film coi Marines giusti e invincibili, Iwo Jima, Pearl Harbor e le Filippine, Dunkerque, le portaerei e i caccia, Londra e la Normandia: il cinema riscrisse storia e memoria. Davvero in pochi conoscerebbero Pearl Harbor senza i film. Sappiamo. Ma ci furono anche capolavori, vicende dolorose di reduci, film che raccontavano la verità. I migliori anni della nostra vita (7 Oscar) è la storia di tre reduci. Uno dei protagonisti, Harold Russell, era un vero mutilato di guerra, aveva perso entrambe le braccia. Gli applicarono due protesi. Nel film, mentre sta ritirando duecento dollari in banca, incontra un altro reduce. Dice: "Lo zio Sam me li darà tutti i mesi vita natural durante" ed è sereno e riconoscente. Russell morì nel 2002, a 88 anni. I reduci dal Vietnam e dal Golfo non sarebbero stati altrettanto riconoscenti. Hollywood volle dire la sua anche su Hiroshima. Anche se con prudenza. Per decenni il pensiero era "non si poteva fare altrimenti". Poi il "pensiero" è stato ridiscusso. Certo, c'era di mezzo il tradimento dei giapponesi a Pearl Harbor, appunto. Gli americani se lo erano legato al dito. Tuttavia l'indicazione contemporanea è diversa. Oltre 200.000 morti civili e incolpevoli dicono che forse si poteva fare altrimenti. Il comandante del B 29 che sganciò quella bomba era Paul Tibbets. È morto nel 2007 a 92 anni. Già da tempo aveva detto a un suo amico, Gerry Newhouse, di non volere né un funerale vistoso né una lapide sulla sua tomba. Temeva che si trasformasse in luogo per manifestazioni di protesta. Fino agli anni settanta, sì fino al Vietnam, se ci fosse stata quella tomba, nessuno avrebbe manifestato. Anzi, forse sarebbe stata meta di pellegrinaggi. Così, anche il comandante Tibbets, il "direttissimo" interessato, aveva capito.

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