Edoardo Leo e Giuseppe Battiston in una tagliente indagine della crudeltà presente nell'umano e nel sacro. Al cinema.
di Leonardo Strano, vincitore del Premio Scrivere di Cinema
Che dire di Io c'è, come definirlo? Forse commedia all'italiana più cinica di quelle di oggi ma meno di quelle di ieri, di certo film in cui, al di là dei giudizi di merito, è presente una tagliente indagine della crudeltà presente nell'umano e nel sacro, spinta a tavoletta e proposta (con scherzo eloquente) agli spettatori a ridosso di Pasqua: quindi commedia votata alla risata raffinata, divisa in una prima parte che sbeffeggia alcune fette di realtà - secondo alcuni incastrando Sordi e Ferreri in un nuovo scenario sociale - e in una seconda che invece cerca di trasmettere un messaggio, sostituendo l'energetico e umoristico sparare a zero a un sentimento costruttivo.
In ogni caso satira secondo manuale, da prendere ad esempio, capace di una autopsia fredda e ben poco innocua che, usando il riso come un bisturi incattivito, fa emergere l'ipocrisia di alcuni tipi umani e dimostra la forza di un genere sempre meno calcato, perfetto invece per scomporre la complessità dei tempi con un misto di apparente leggerezza (nei toni) e profondità (nei contenuti).
Profondità prolungata in coda dagli insegnamenti educativi sopra citati, fondamentali nel progetto di una satira che prima prende in giro e poi suggerisce verità socialmente utili.
È la storia dell'albergatore Massimo Alberti (interpretato da Edoardo Leo), che racconta la particolare (o forse universale?) vicenda di un cialtrone medio che diventa profeta ciarlatano, sfruttando la crisi spirituale di un angolo d'Italia per rimediare alla sua crisi economica. L'assurdità della questione è filtrata attraverso la lente deformante della satira, capace di rendere ogni episodio una vignetta umoristica adattata ai tempi comici del grande schermo, una barzelletta sibilata a denti stretti, ma anche di più: una parabola sfacciata, servita agli spettatori mediante un racconto psicologico che analizza prima il bisogno disperato delle persone di credere in qualcosa di più grande, poi l'amoralità di chi sfrutta questo bisogno per guadagnare moneta esentasse e proseliti collaterali e infine l'aridità di chi non è più un grado di credere alle storie. La risata veicola il tutto, istruendo a prendere meno sul serio la realtà che ci circonda e aprendo spazi per ragionare sulla paurosa irrazionalità di alcuni aspetti del tempo corrente.