Il film del maestro sudcoreano è una favola storta, contraddittoria, confliggente, in cui non esiste ricomposizione, nemmeno se volessimo credere alla coincidenza degli opposti. Presentato a Venezia e ora al cinema.
di Roy Menarini
Secondo i dizionari, l'apologo è "una favola allegorica con finalità didattiche, di cui possono essere protagonisti uomini, animali o cose inanimate", oppure ancora "una narrazione di carattere allegorico che normalmente si prefigge un fine etico e pedagogico". Tutta la filmografia di Kim Ki-duk ruota intorno al finto apologo, ovvero a offrire racconti apparentemente limpidi e consecutivi, racconti da cui ci si aspetta una certa morale, che poi sottraggono certezze allo spettatore e fanno trionfare le contraddizioni invece di un senso unitario. Questo meccanismo può assumere forme anche opposte: un racconto di violenza e spiazzante crudeltà diventa un apologo (La samaritana, Pietà, Moebius), oppure l'apologo si dimostra inaffidabile (Primavera, estate, autunno, inverno..., Ferro 3).
Assai sottovalutato alla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, Il prigioniero coreano appartiene al secondo gruppo. Con un andamento lineare e di avvenimenti che conseguono l'uno all'altro, Ki-duk ci presenta un racconto diviso chiaramente in due parti, due luoghi, due Paesi e due sistemi politici, ovvero le due Coree.
Sebbene lontana da una profonda conoscenza della situazione da parte degli spettatori occidentali (per quanto magari ora più informati, "grazie" alle tensioni internazionali e alle Olimpiadi invernali), la divisione tra il Nord dittatoriale e comunista, e il Sud democratico e capitalista si offre da tempo, per i registi coreani del sud, come un'occasione narrativa di sapore universale, e non meramente locale.
Approfittando di una Patria nettamente divisa tra un settentrione divenuto ormai uno degli ultimi luoghi di socialismo reale del mondo, e un meridione travolto dal turbocapitalismo, Ki-duk sembra avere gioco facile nel raccontare le disavventure del povero pescatore del Nord. Avendo per errore superato il confine, e finendo involontariamente al Sud, egli viene catturato e sperimentato come una rara avis di fronte alla seduzione capitalista. Cercando letteralmente di non guardare il capitalismo (la metafora dell'accecamento causato dal liberismo è una delle più utilizzate dal regime comunista), egli si aggira fantasmatico, osservato speciale di un universo che non sempre possiede regole più umanitarie di quelle assolutiste. Come L'uomo che cadde sulla Terra, è un alieno fragile, pieno di convinzioni errate. Il bello, tuttavia, è che quando il protagonista comincia a osservare non viene più di tanto accecato, e - sebbene traumatizzato dalla modernità metropolitana - fa presto la conoscenza dei suoi lati più disperati e delle sue mercificazioni meno commendevoli.
Di ritorno al Nord, il suo destino è tutt'altro che semplice, visto che il solo essere stato a contatto con la peste capitalista lo rende sospetto alle autorità. Il poco che aveva (una patria, una famiglia) diventa presto una chimera, ed egli perde l'appartenenza a qualsiasi società, di qualsiasi ideologia si tratti.
Ed ecco il finto apologo: Ki-duk non è certo così ingenuo da proporre una morale semplificata in cui comunismo e capitalismo sono due facce della stessa medaglia (sa bene che al Nord non potrebbe neanche lontanamente pensare di girare i film che ha girato). Piuttosto, ci propone una favola storta, contraddittoria, confliggente, in cui non esiste ricomposizione, nemmeno se volessimo credere alla coincidenza degli opposti. No, il capitalismo coreano del Sud e la dittatura del Nord non sono la stessa cosa, ma questo non significa rimanere sordi all'uno e all'altro. Il singolo e il suo destino intrecciano solo ogni tanto la linea d'orizzonte dei sistemi di potere, e quando lo fanno raramente ne escono indenni.