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Federica Di Giacomo: 'Il punto di vista è la visione cinematografica'

Il suo Liberami, documentario sul fenomeno dell'esorcismo, ha vinto come miglior film della sezione Orizzonti alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia. Dal 29 settembre al cinema.
di Paola Casella

Liberaci dal male

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In foto la regista Federica Di Giacomo alla presentazione del film Liberami alla 73. Mostra del Cinema di Venezia.
domenica 25 settembre 2016 - Incontri

Il suo Liberami, che segue la quotidianità di un esorcista e dei "posseduti" che a lui si rivolgono, ha vinto il premio come Miglior film della sezione Orizzonti alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia.

Federica Di Giacomo è la seconda regista italiana ad ottenere un riconoscimento al Lido (la prima, vent'anni fa, è stata Roberta Torre con Tano da morire), e l'unica fra i nostri autori in gara nelle varie sezioni a portare a casa quest'anno un riconoscimento da parte delle giurie.
Paola Casella

Oltre tre anni di lavoro, minima disponibilità di fondi e dedizione assoluta hanno creato un film di realtà la cui tensione narrativa non si allenta mai e che, come ha detto Robert Guédiguian, presidente della giuria di Orizzonti, racconta "una realtà poco nota e un livello nuovo di irrazionalità, perdita di sé e alienazione: una metafora di ciò che succede nella nostra società".


Federica Di Giacomo ritira il premio per il miglior film della sezione Orizzonti alla 73. Mostra del Cinema di Venezia.
Federica Di Giacomo, regista di Liberami, dal 29 settembre al cinema.
In foto la regista Federica Di Giacomo alla presentazione del film Liberami alla 73. Mostra del Cinema di Venezia.

A differenza di alcuni registi di documentari contemporanei, lei ha scelto di non intervenire sulla realtà che ha filmato.
Non amo il tipo di cinema in cui ci si coinvolge in prima persona. Preferisco quell'osservazione della realtà fly on the wall in cui il regista cerca di scomparire, quel cinema in cui lo spettatore entra dentro il tempo, il ritmo e le emozioni dell'universo in cui viene catapultato. Mi sembra più interessante che emergano le strategie di sopravvivenza e di interpretazione del mondo delle persone che racconto, i loro dubbi e perplessità. Le posizioni critiche, più che dall'autore, devono emergere da loro. E non amo, in un documentario, il modello dell'intervista, perché sposta tutto sul piano razionale in cui chi è filmato fa già un'operazione di autorappresentazione di sé. In generale non penso che un regista, affrontando un determinato argomento, debba esprimere il proprio punto di vista, perché il punto di vista è la visione cinematografica. Un giudizio, una tesi, una presa di posizione impediscono allo spettatore di reagire al film a livelli più profondi, di cercarne i sensi.

Quanto materiale ha girato per arrivare a ciò che vediamo in Liberami?
Oltre un centinaio di ore. La costruzione è avvenuta così: dopo molti mesi di osservazione senza macchina da presa abbiamo cercato un'unità narrativa di luogo, ovvero le due chiese che si vedono nel film, e una struttura temporale che rappresentasse l'arco di una lunga giornata per mostrare la pratica esorcista nel mondo contemporaneo e la sua metabolizzazione in una vita quotidiana, in cui si passa attraverso la pratica inquietante ed emotivamente molto intensa dell'esorcismo, e poi si torna tranquillamente a casa a riprendere le proprie consuete attività. Da lì abbiamo iniziato a girare con cadenza quasi settimanale e sia in ripresa che in montaggio c'è stato un lungo lavoro di selezione del materiale e di riscrittura continua per reinventare lo sguardo sul tema, che era monopolizzato dall'horror cinematografico o dall'ignoranza. Pochissimi di noi erano al corrente del cambiamento nella figura dell'esorcista, che diventa una sorta di terapeuta moderno. In relazione a una domanda sempre crescente, la risposta della Chiesa è armare una serie di preti, quasi uno per diocesi, per affrontare questa nuova emergenza spirituale.

Come già Corpo celeste di Alice Rohrwacher, anche Liberami mostra come la Chiesa si stia avvalendo di strumenti comunicativi al passo coi tempi, più di altre istituzioni.
È inevitabile, anche se a volte produce effetti comici. La nostra cultura cattolica, nel momento in cui tante delle nostre opzioni terapeutiche non riescono ad esaurire il senso di un disagio crescente, offre un percorso di fede che esce dal consumismo. I momenti grotteschi nel film derivano anche dal fatto che l'atteggiamento consumista è in chi si rivolge alla Chiesa perché vuole una liberazione rapida e non è pronto ad impegnarsi in percorsi lunghissimi di conversione spirituale. I preti allora diventano una sorta di trincea di buon senso quando dicono: non potete venire qua a pretendere solo un esorcismo, dovete metterci del vostro. L'esorcismo diventa dunque anche un generatore di metafore sulla società, sui tipi di cure che cerchiamo, e sull'atteggiamento con cui le cerchiamo.

Colpisce il suo rifiuto di fare leva sull'ironia, mettendo in ridicolo le persone che racconta.
Non è possibile fare un documentario prendendo in giro coloro su cui lo fai: questa è violenza. Chi fa cinema di osservazione trasforma le persone comuni in personaggi e dunque il rispetto è d'obbligo perché ti stanno affidando la loro vita, e tu sai bene che hai un potere molto maggiore di loro, il potere della rappresentazione, e molti modi per manipolare la realtà, soprattutto al montaggio.


Una scena del film Liberami, dal 29 settembre al cinema.
Una scena del film Liberami, dal 29 settembre al cinema.
Una scena del film Liberami, dal 29 settembre al cinema.

Quali regole vi siete dati per tenervi lontani dall'estetica horror con cui il cinema ha sempre trattato il tema dell'esorcismo?
Non c'è stato bisogno di darsi regole: la realtà è molto diversa dalla rappresentazione horror, anche se alcuni sintomi della cosiddetta possessione, sintomi corporali come il vomito o la tosse, si avvicinano a quelli raccontati dal cinema. La dinamica dell'esorcismo paracadutato in mezzo alla vita quotidiana ci ha dato uno spettro di sfumature infinite che non erano solo quelle della paura. In mezzo c'erano il dubbio, gli errori di percorso e di interpretazione, l'ironia, la signora che si presenta in chiesa con le buste della spesa, il prete che fa i suoi esorcismi al telefono, l'esorcizzato che appena ha finito deve tornare al lavoro. Ci siamo dovuti spogliare di tanti pregiudizi e idee mutuate dal cinema e affrontare una realtà molto più umana che paranormale.

Ha mai avuto paura durante le riprese?
Ho avuto paura quando ho assistito al primo esorcismo, e poi ho temuto di non essere in grado di raccontare questa storia, ma nel momento in cui siamo entrati dentro le chiese e abbiamo iniziato a vivere accanto alle persone che raccontiamo la paura è passata. È stata un'esperienza emotiva intensissima di contatto con la sofferenza umana che ci ha arricchito perché ci ha avvicinato a persone che prima avremmo considerato di un altro mondo e ci ha fatto entrare dentro a una nuova visione del malessere.

Che cosa ha imparato?
A rinunciare al giudizio perché allontana gli esseri umani e non ti permette di sentire che siamo tutti connessi, e che le sofferenze sono le stesse per tutti. Ognuno poi le affronta come vuole ma la necessità di giudicare toglie ricchezza all'esperienza umana. Io partivo da una posizione piuttosto anticlericale, ma su un certo tipo di lavoro della Chiesa, quello di chi sta davvero in trincea, ho cambiato prospettiva: molti a modo loro, all'interno di un dogma che si può accettare o meno, dimostrano una grandissima passione. Almeno quelli che ho incontrato io.

Per lei realizzare questo film è stata una liberazione?
Sì, ma quando uno sta così tanto tempo su un progetto occupandosi di ogni aspetto e mettendoci tutta la passione possibile, liberarsene alla fine è quasi doloroso. Stiamo accettando questa liberazione, ma piano piano.


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