writer58
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domenica 29 maggio 2016
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pazzi on the road...
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Il film di Virzì, "La pazza gioia", mi ha lasciato un retrogusto agrodolce. E' un'opera divertente, che mescola in modo equilibrato dramma e commedia, con un buon ritmo ed eccellenti caratterizzazioni.
Ambientato in Toscana, narra la vicenda di due donne approdate in una comunità terapeutica per pazienti psichiatrici su ordinanza del tribunale: Beatrice, di ascendenze alto borghesi, mitomane che millanta frequentazioni con i Clinton e con Clooney e Donatella, giovane madre a cui hanno sottratto il figlio per incapacità genitoriale e depressione "maggiore". Le due sono agli antipodi per personalità e caratteristiche -vulcanica, debordante e logorroica Beatrice; schiva, introversa e ripiegata su se stessa Donatella-, ma, in omaggio al principio della "strana coppia" si avvicinano e diventano amiche,dopo un tentativo riuscito di fuga dalla comunità.
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Il film di Virzì, "La pazza gioia", mi ha lasciato un retrogusto agrodolce. E' un'opera divertente, che mescola in modo equilibrato dramma e commedia, con un buon ritmo ed eccellenti caratterizzazioni.
Ambientato in Toscana, narra la vicenda di due donne approdate in una comunità terapeutica per pazienti psichiatrici su ordinanza del tribunale: Beatrice, di ascendenze alto borghesi, mitomane che millanta frequentazioni con i Clinton e con Clooney e Donatella, giovane madre a cui hanno sottratto il figlio per incapacità genitoriale e depressione "maggiore". Le due sono agli antipodi per personalità e caratteristiche -vulcanica, debordante e logorroica Beatrice; schiva, introversa e ripiegata su se stessa Donatella-, ma, in omaggio al principio della "strana coppia" si avvicinano e diventano amiche,dopo un tentativo riuscito di fuga dalla comunità. La loro fuga si risolverà in un viaggio per tutta la Toscana, alla ricerca di un po' di felicità e dei nodi irrisolti che le hanno condotte alla loro condizione attuale...
Molti riconoscono in Virzì uno dei maggiori interpreti ed eredi della "commedia all'italiana" dei tempi d'oro. Mi pare, tuttavia, una valutazione un po' riduttiva. Certo, i film di Virzì scandagliano un'Italia provinciale, minore, abbarbicata ai suoi vizi e alle sue mitologie e lo fanno rispettando gli stilemi di una commedia drammatica (dramedy direbbero gli americani con una felice sintesi). Ma Virzì mostra una profondità di analisi e uno sguardo peculiari. Ne "La Pazza gioia" il mondo del disagio psichico e delle istituzioni che lo dovrebbero contenere è rappresentato, tranne qualche passaggio di maniera,in modo sobrio e verosimile. Lo scavo che le due protagoniste riescono ad operare è notevole, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti forniscono un'interpretazione molto buona misurandosi con ruoli difficili ed evitando forzature retoriche o macchiettistiche. C'è un passaggio nel film che mi è parso illuminante: Beatrice si rifugia a casa di sua madre e, nella grande villa dei genitori, si sta girando un film. Il film è della regista Archibugi, che ha scritto la sceneggiatura di "La Pazza gioia". Oltre ad essere un omaggio metanarrativo, mi è parso che la sensibilità con cui la Archibugi narra vicende di adolescenti e giovani donne si sia saldato con lo sguardo attento di Virzì, che restituisce un ritratto dell'universo femminile toccante e non stereotipo. Uno sguardo sulla sofferenza, sul "mal di vivere" che le istituzioni sedano e controllano, ma a cui non sanno rispondere. Un buon film, tre stelle e mezzo.
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vanessa zarastro
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mercoledì 18 maggio 2016
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follia, fantasia e amicizia
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“La pazza gioia” è un bel film. È raro vedere un film italiano che non sia uno neo-neorealista il cui maggiore scopo è disvelare la realtà e denunciare una situazione. Più in linea con la commedia che Scola e Monicelli ci hanno fatto amare, il film di Virzì vuole essere un inno alla vita, alla voglia di esserci nonostante tutto. Una storia di affetto e di amicizia a metà tra la realtà e l’invenzione così come i suoi due personaggi femminili. In particolare la bravissima Valeria Bruni Tedeschi ha il ruolo di Beatrice, una ricca nobile un po’ âgée con una mentalità reazionaria e snob, che confonde la fantasia dalla realtà continuando a impartire ordini anche a Villa Biondi - la comunità terapeutica nella quale è relegata - come se le altre pazienti fossero tutte sue domestiche, giardiniere e cameriere.
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“La pazza gioia” è un bel film. È raro vedere un film italiano che non sia uno neo-neorealista il cui maggiore scopo è disvelare la realtà e denunciare una situazione. Più in linea con la commedia che Scola e Monicelli ci hanno fatto amare, il film di Virzì vuole essere un inno alla vita, alla voglia di esserci nonostante tutto. Una storia di affetto e di amicizia a metà tra la realtà e l’invenzione così come i suoi due personaggi femminili. In particolare la bravissima Valeria Bruni Tedeschi ha il ruolo di Beatrice, una ricca nobile un po’ âgée con una mentalità reazionaria e snob, che confonde la fantasia dalla realtà continuando a impartire ordini anche a Villa Biondi - la comunità terapeutica nella quale è relegata - come se le altre pazienti fossero tutte sue domestiche, giardiniere e cameriere. Donatella invece – la straordinaria Micaela Ramazzotti – è una giovane donna proletaria piena di tatuaggi e di pochissime parole, provata da varie disavventure della vita, ex cameriera in un night-club, anche lei sbarcata a Villa Biondi. L’incontro tra le due è in crescendo, la logorroica Beatrice non si arresta difronte alla scorbutica Donatella e man mano riesce a sfondare il muro protettivo dietro il quale si trincera e ad acquistarne la fiducia. In fondo la trama del film è tutta qui nel rapporto tra le due donne, con la progressiva apertura dell’introversa e con l’affiorare di sincerità dell’altra una volta crollate le maschere, e si apprezza così sia la strepitosa interpretazione delle due attrici, sia la mano alla regia di Virzì priva totalmente di sbavature.
Dopo fughe rocambolesche - non programmate ma nate casualmente per un disguido - con la voglia di gioire della libertà in giro per vari luoghi della Toscana, Donatella finirà per aprirsi con l’amica e raccontare la sua storia: rimasta incinta del suo capo già sposato è stata da lui stesso licenziata. Con sacrifici arriva a partorire ma, una volta nato suo figlio, per una serie di gravi motivazioni, sarà dato in adozione. Beatrice, dal suo canto, si era invaghita di un imbroglione l’ha raggirata e truffata facendola finire in galera. Nel narrare le vicende delle due donne Paolo Virzì fa nascere il dubbio che la follia sia una conseguenza, in crescendo, delle privazioni affettive e delle grandi delusioni d’amore che hanno accresciuto il senso di malessere e/o il disagio sociale.
Film intenso, ironico, poetico e commovente che ha appena riscosso un gran successo a Cannes.
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evak.
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lunedì 9 ottobre 2017
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una gioia pazza
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Paolo Virzì è sempre in grado di sorprendere.
Il film emoziona, rende tangibile l'odore della vita. Quella di tutti: degli strambi, degli straziati, dei cinici, di coloro che amano la vita, dei beati. Tutti sembrano folli, tranne le due protagoniste. Che non lo sono. Amano talmente tanto la vita da non riconoscerla nelle persone che hanno incontrato. E per loro - che sembrano le "pizzicate" de "la pizzica" - l'etichetta sociale delle disturbate.
Virzì ci restituisce uno sguardo raffinato non tanto sulle fragilità umane - perchè queste due donne sono forti, fortissime, sanno lottare, hanno lottato e ora hanno solo bisogno di riposare - quanto sull'inadeguatezza del sociale che non è abituato a riconoscere il desiderio e la libertà.
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Paolo Virzì è sempre in grado di sorprendere.
Il film emoziona, rende tangibile l'odore della vita. Quella di tutti: degli strambi, degli straziati, dei cinici, di coloro che amano la vita, dei beati. Tutti sembrano folli, tranne le due protagoniste. Che non lo sono. Amano talmente tanto la vita da non riconoscerla nelle persone che hanno incontrato. E per loro - che sembrano le "pizzicate" de "la pizzica" - l'etichetta sociale delle disturbate.
Virzì ci restituisce uno sguardo raffinato non tanto sulle fragilità umane - perchè queste due donne sono forti, fortissime, sanno lottare, hanno lottato e ora hanno solo bisogno di riposare - quanto sull'inadeguatezza del sociale che non è abituato a riconoscere il desiderio e la libertà. Un sociale che non riconosce l'amore per le piccole cose menzionate ("le tovaglie di fiandra" "le persone gentili") e che ne ha paura, vedendo in esso il segno di una grande fragilità; una società che non usa il canale emozionale per comunicare quanto quello asettico di procedure mentali-meccaniche standard.
Attraverso Beatrice e Donatella, Paolo Virzì riporta in scena l'umorismo pirandelliano con una poetica inconfondibile.
Questi due personaggi diventano un pò il simbolo della gioia che incontra la pazzia solo quando non può esprimersi.
L'uso di determinati colori nel film fanno da contorno, quasi fino a diventare protagonisti della storia dove la parola non ha posto.
Sceneggiatura, fotografia e regia straordinarie.
Valeria Bruni Tedeschi: immensa.
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riccardo tavani
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sabato 26 novembre 2016
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la gioia è pazza ma anche tranquillizzante
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l’autore mostra una grande, superiore maestria rispetto ai suoi precedenti lavori, ma questo non significa che non segni anche dei limiti. Limiti, però, che non sono solo individuali, ma riguardano tutta l’attuale situazione artistica e produttiva del cinema italiano.
La prima domanda che dobbiamo porci è se l’opera ci dica qualcosa di nuovo. La seconda è se lo dice in maniera nuova. Appare evidente che qui due sono i celebri precedenti che si prendono a riferimento: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman, del 1975, e Thelma & Louise di Ridley Scott, del 1991. Due donne in fuga non dalla violenza e dall’oppressione matrimoniale ma da una comunità di cura mentale nella campagna toscana.
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l’autore mostra una grande, superiore maestria rispetto ai suoi precedenti lavori, ma questo non significa che non segni anche dei limiti. Limiti, però, che non sono solo individuali, ma riguardano tutta l’attuale situazione artistica e produttiva del cinema italiano.
La prima domanda che dobbiamo porci è se l’opera ci dica qualcosa di nuovo. La seconda è se lo dice in maniera nuova. Appare evidente che qui due sono i celebri precedenti che si prendono a riferimento: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman, del 1975, e Thelma & Louise di Ridley Scott, del 1991. Due donne in fuga non dalla violenza e dall’oppressione matrimoniale ma da una comunità di cura mentale nella campagna toscana. Più che legittimo, anzi encomiabile, prendere dei riferimenti elevati per reinterpretarli, aggiornarli, adattarli alla propria realtà. Questo, però, contiene già in sé un evidente rischio: quello non solo di non essere all’altezza del modello, ma anche di non farne avanzare contenuto narrativo e forma cinematografica.
I film sopra citati non sono commedie, La pazza gioia sì. Commedia amara, anche drammatica – come nella migliore tradizione italiana – ma pur sempre commedia. Sembra che il mercato cinematografico italiano sia destinato a puntare solo sulla commedia per tentare di incassare qualcosa. La commedia – anche quella di livello superiore, come in questo caso – deve rispondere a precisi requisiti, quali il tono leggero sia sul piano narrativo che formale dell’immagine.
I due alti modelli di riferimento hanno già segnato la storia del cinema, ma era chiaro fin dalla loro prima apparizione che lo avrebbero segnato. La pazza gioia non lo sappiamo ancora, ma non appare così evidente. Ciò che soprattutto caratterizza quei due modelli è l’incontro/scontro drammatico con la realtà sociale esterna, sia alla famiglia-prigione sia alla prigione-psichiatria. Un dramma che ci fa capire meglio la genesi del dolore mentale dalle pieghe della normalità, della realtà aperta, ossia quella là fuori. Nel film di Virzì la peripezia delle fuggitive oscilla sempre attorno al baricentro delle vicende e dei luoghi familiari. Certamente non si può disconoscere che l’autore esibisca un incalzante, buon estro di situazioni paradossali, false, ipocrite, che colpisce poi con tagliente sarcasmo di battute, inquadrature e sequenze. Situazioni comunque mai di minaccia immediata o incombete. La stessa comunità terapeutica è più un nido di protezione che di crudele follia, sia dal punto di vista dei medici, degli operatori che dei malati. Questo sarà anche motivo di vanto per le nostre strutture sanitarie, ma resta il fatto che non si va mai davvero là fuori, neanche per ridere più amaramente o sentire più profondamente ciò che autenticamente causa male e malati.
Il finale è emozionante, coinvolgente, addirittura strappalacrime, perché scatta un immediato meccanismo di identificazione tra lo spettatore e una delle due protagoniste. Ci chiediamo, però, quanto questo impulso salga più dalla situazione ricreata o dalla qualità formale della sequenza, nel senso che a volte diventa troppo facile far scaturire lacrime e commozione con meccanismi non autenticamente drammatici ma solo superficialmente immedesimativi. Tutto quanto detto, ripetiamo, può essere riassunto nell’indicare quel limite originario, costitutivo insito nella scelta obbligata di produrre commedie. Ossia: una pazza gioia sì ma alla fine socialmente tranquillizzante.
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sergio dal maso
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domenica 28 agosto 2016
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la pazza gioia
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“Sono stata una bambina triste”.
“Anch’io sono nata triste”.
Beatrice e Donatella sono due donne in crisi, sole, ferite dalla vita che le ha private dell’affetto di cui hanno disperatamente bisogno. Ingannate e umiliate da maschi incapaci di comprenderle e amarle veramente.
Accumunate dalla depressione e dalla malattia mentale, si incontrano a Villa Biondi, una moderna comunità terapeutica per il recupero e la cura di disturbi psichici situata nella campagna pistoiese.
Se non fosse per il ricovero a Villa Biondi non si sarebbero mai conosciute, perché, a parte i problemi psichiatrici, non potrebbero essere più diverse.
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“Sono stata una bambina triste”.
“Anch’io sono nata triste”.
Beatrice e Donatella sono due donne in crisi, sole, ferite dalla vita che le ha private dell’affetto di cui hanno disperatamente bisogno. Ingannate e umiliate da maschi incapaci di comprenderle e amarle veramente.
Accumunate dalla depressione e dalla malattia mentale, si incontrano a Villa Biondi, una moderna comunità terapeutica per il recupero e la cura di disturbi psichici situata nella campagna pistoiese.
Se non fosse per il ricovero a Villa Biondi non si sarebbero mai conosciute, perché, a parte i problemi psichiatrici, non potrebbero essere più diverse.
Beatrice è una donna aristocratica, esuberante e mitomane, loquace ai limiti del logorroico. La sua famiglia l’ha cacciata e la rifiuta perché le attribuisce il dissesto finanziario e la decadenza economica.
Donatella, invece, è una ragazza fragilissima, schiva e taciturna, segnata dalla tossicodipendenza e dall’anoressia di cui porta i segni in un corpo tatuato e sofferente. Ha avuto un bambino che le è stato tolto e dato in adozione, evento che l’ha sconvolta.
Dopo i primi maldestri tentativi di Beatrice entrambe iniziano a cercarsi, “annusandosi” reciprocamente e scoprendo nella complicità quell’affetto in grado di lenire le ferite dell’anima.
Il percorso che le porterà a maturare un’ amicizia salvifica passerà attraverso una “pazza” fuga dalla comunità, apparentemente senza metà, in realtà ripercorrendo i luoghi famigliari e le dolorose vicende che le hanno segnate. Ricostruire il proprio passato con la fiducia di avere accanto una persona che le vuole davvero bene darà a Donatella la forza di accettarlo e di guardare finalmente al futuro.
Dopo la fredda e cinica Lombardia raccontata nello splendido noir Il capitale umano il regista livornese Paolo Virzì torna nella sua Toscana e riprende le fila di quella commedia dolceamara, a metà tra dramma e humour, in grado di mescolare risate e commozione, unendo leggerezza e impegno.
Il risultato è un capolavoro. La pazza gioia racconta il disagio psichico, tra l’altro un tema molto difficile e scivoloso da portare al cinema, con una grazia e una sensibilità che colpiscono al cuore.
Le figure femminili delle protagoniste so-no costruite con uno spessore psicologico e una intimità notevoli, e senza retorica né pietismo, in modo assolutamente credibile. Non a caso Virzì ha voluto scrivere la sceneggiatura a quattro mani con l’amica regista Francesca Archibugi, bravissima nell’indagare la complessità della psiche femminile fin dal suo esordio con Mignon è partita.
Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti sono davvero straordinarie: interpretano Beatrice e Donatella in modo viscerale e totalizzante, creando una fortissima empatia tra di loro e con gli spettatori.
La cinepresa di Virzì le segue da vicino con inquadrature spesso ravvicinate e primissimi piani che, attraverso i volti e i corpi sofferenti, restituiscono il dolore e la tristezza delle due. Splendida la fotografia di Vlatan Radovic, calda e solare negli esterni, più soffusa e soffocante negli interni dell’istituto.
Molto indovinata anche la scelta di far recitare alcune pazienti del dipartimento di salute mentale di Montecatini, Virzì ha dichiarato che si sono integrate perfettamente con la troupe, aiutando loro per prime le attrici professioniste. La Ramazzotti, oltre che dimagrire di 8 chili, per entrare nella parte ha frequentato per molti mesi psichiatri e pazienti.
Alcuni hanno paragonato La pazza gioia a Thelma & Louise - in effetti la fuga in macchina lo ricorda - o al celeberrimo Sorpasso di Dino Risi con Gassman e Trintignant, altri hanno scomodato Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Mi sembra un esercizio riduttivo. La pazza gioia è semplicemente uno splendido film, con momenti di grande cinema e vera poesia.
La catarsi finale di Donatella nell’acqua con il figlio è una metafora potente e commovente del mistero della maternità. L’acqua come il liquido amniotico che custodisce la vita, l’acqua elemento primigenio che alla fine riunisce e rigenera quello che un momento di debolezza aveva diviso.
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nanni
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giovedì 26 maggio 2016
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la pazza gioia
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La malattia mentale non fa prigionieri. Distribuisce dolore e sofferenza democraticamente a destra e sinistra a ricchi e poveri. La sommarietà dell'approccio alla malattia, la parzialità e l'incosistenza della cura sono direttamente proporzionali alla quantità industruale di disturbo mentale che produciamo. Beatrice e Donatella, straordinarie protagoniste de "la pazza gioia" (ossimoro più che appropriato), "ospiti" di un centro di igiene mentale, in un disperato tentativo di fuga da quel mondo ed alla ricerca di un po' di sollievo, inizieranno un viaggio che le porterà, invece, via via e fatalmente al centro del dolore.........quello profondo e desolato dove non c'è che attesa.......dove è difficile trovare risposte o dove forse proprio non ce ne sono.
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La malattia mentale non fa prigionieri. Distribuisce dolore e sofferenza democraticamente a destra e sinistra a ricchi e poveri. La sommarietà dell'approccio alla malattia, la parzialità e l'incosistenza della cura sono direttamente proporzionali alla quantità industruale di disturbo mentale che produciamo. Beatrice e Donatella, straordinarie protagoniste de "la pazza gioia" (ossimoro più che appropriato), "ospiti" di un centro di igiene mentale, in un disperato tentativo di fuga da quel mondo ed alla ricerca di un po' di sollievo, inizieranno un viaggio che le porterà, invece, via via e fatalmente al centro del dolore.........quello profondo e desolato dove non c'è che attesa.......dove è difficile trovare risposte o dove forse proprio non ce ne sono..........con un finale commovente e solo apparentemente consolatorio Virzì fa centro ancora una volta. Da vedere. Ciao Nanni
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accettoilcaos
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venerdì 14 aprile 2017
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inno alla gioia (e alla liberta')
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Beatrice Morandini Valdirana, magistralmente interpretata da Valeria Bruno Tedeschi, è un personaggio che parossisticamente somiglia a Woody Allen, con la sua dialettica concitata, assimilabile per lo più ad un monologo interiore. Paziente della Villa Biondi, è un'attrice lei stessa, presa nella recita della sua vita, che tenta in ogni modo di scrivere il copione che più la faccia sentire al sicuro. E' egosintonica, perfettamente a suo agio con i suoi sintomi, crede di essere vittima di un sistema che trama contro di lei. La sua vita è un triste teatro ma pur sempre più accettabile della realtà.
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Beatrice Morandini Valdirana, magistralmente interpretata da Valeria Bruno Tedeschi, è un personaggio che parossisticamente somiglia a Woody Allen, con la sua dialettica concitata, assimilabile per lo più ad un monologo interiore. Paziente della Villa Biondi, è un'attrice lei stessa, presa nella recita della sua vita, che tenta in ogni modo di scrivere il copione che più la faccia sentire al sicuro. E' egosintonica, perfettamente a suo agio con i suoi sintomi, crede di essere vittima di un sistema che trama contro di lei. La sua vita è un triste teatro ma pur sempre più accettabile della realtà. La madre (Marisa Borini, madre anche nella realtà della Bruni) è una donna che si augura che la figlia muoia, totalmente indifferente alle urla silenziose che quest'ultima lascia disperatamente. L'ex marito è forse innamorato ancora di lei, ma non al punto da poterla aiutare in modo umano e affettuoso. Il sesso, anche piuttosto squallido e grottesco, è l'unica maniera che ha per starle vicino.
Donatella Morelli arriva alla Villa in un secondo momento. E' una donna che non teme di mostrare la sua fragilità. D'altra parte, come potrebbe essere diversamente? La sua vita costellata di grandi dolori e delusioni parla da sé. E' una donna che, anni prima, era arrivata a compiere un gesto estremo pur di liberare se stessa e suo figlio. Luogo testimone di questo avvenimento, è lo splendente panorama del lungomare del Romito (e chi è abituato a viaggiare con il treno verso Livorno lo sa bene) che appare in tutta la sua immensità e rimanda subito a un grande senso di libertà, come se fosse possibile inspirare tutta l'aria del mondo con i propri polmoni. Fare un tuffo, date queste premesse, sembrerebbe la scelta più adatta, quasi l'unica possibile. Il mare è ciò che stava per dividere per sempre madre e figlio ed è grazie ad esso se i due riusciranno a ritrovarsi, anche se per poco, nello spazio di un attimo che vale l'eternità. D'altronde, è così: la corrente porta le cose dove queste devono stare. Virzì riesce a dipingere il tentato omicidio-suicidio come un atto di tenera disperazione; getta su questo uno sguardo benevolo, non di rimprovero né di giudizio morale.
Le due donne diventano inevitabilmente amiche. Inevitabilmente perché sono due esseri complementari, due anime gemelle, come quelle che riempiono i romanzi sentimentali. Il loro profondo legame le porta a consapevolezze molto simili: entrambe capiscono che è necessario curare la propria anima, ciò che conta è farlo insieme, mano nella mano, ridendo a crepapelle quando più fa voglia. Molto intenso lo sguardo che le due si rivolgono quando Donatella ritorna alla clinica, dopo aver rivisto suo figlio ed essersi resa conto che, impegnandosi per riscattare il proprio passato segnato dalla deprivazione, probabilmente avrà la possibilità di rivederlo questo bambino.
Virzì riesce a proiettare lo spettatore all'interno di un universo sanguinante, doloroso e incomprensibile ai più, forse anche inaccettabile e, nonostante questo, lo fa in maniera dolce, come se accarezzasse i personaggi. Non è un giudice delle loro azioni, non li condanna, come invece farebbe chiunque. E' come un padre, un padre commosso nel vedere i loro passi nel mondo, alla ricerca della consapevolezza necessaria per guarire. Passi stentati, sbilenchi, che, se fatti in due, diventano più sicuri e decisi. Passi alla ricerca della libertà, quella vera.
Questo film è per chi, fondamentalmente, ha un cuore e non ha paura di usarlo. E' un film per chi vuole essere libero, e lo vuole essere a tutti i costi.
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stefano capasso
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lunedì 5 dicembre 2016
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le origini del disagio
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Beatrice e Donatella si incontrano a Villa Biondi, istituto terapeutico di recupero per donne che hanno ricevuto una condanna dal tribunale. Sono pazienti difficili che riescono a sviluppare un’amicizia nonostante siano molto diverse tra loro. Tra litigi e riavvicinamenti arrivano ad organizzare una vera e proprio fuga dall’istituto, che diventerà occasione per conoscersi meglio.
Paolo Virzì firma questo film, che con tratti di commedia commuove raccontando il disagio sociale e psichico. L’analisi di Virzì porta alle origini di questo disagio, e lascia intendere che in un mondo dove tutti potrebbero essere considerati folli, spesso quello che è riconosciuto ufficialmente come tale è una persona che non ha smesso di cercare un riparo alle ferite che ancora sente vive su di sé.
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Beatrice e Donatella si incontrano a Villa Biondi, istituto terapeutico di recupero per donne che hanno ricevuto una condanna dal tribunale. Sono pazienti difficili che riescono a sviluppare un’amicizia nonostante siano molto diverse tra loro. Tra litigi e riavvicinamenti arrivano ad organizzare una vera e proprio fuga dall’istituto, che diventerà occasione per conoscersi meglio.
Paolo Virzì firma questo film, che con tratti di commedia commuove raccontando il disagio sociale e psichico. L’analisi di Virzì porta alle origini di questo disagio, e lascia intendere che in un mondo dove tutti potrebbero essere considerati folli, spesso quello che è riconosciuto ufficialmente come tale è una persona che non ha smesso di cercare un riparo alle ferite che ancora sente vive su di sé. A differenza di chi trova strade alternative di sublimazione.
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yarince
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lunedì 8 maggio 2017
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tu avresti voglia di parlare se nessuno ascolta?
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Mi piacciono tutti i suoi film; ovosodo, baci e abbracci, la prima cosa bella, il capitale umano, tutti i santi giorni (in particolare quest'ultimo che mi ha fatto conoscere Thony). Ma questo è veramente il più intenso, il più bello. Muove tutte le corde, forse a volte si fa fatica a reggere il coinvolgimento emotivo, si ride, si piange, si pensa e resta...se fosse un vino direi che è di "lunga persistenza" dove per persistenza non si intende la durata del gusto del vino in bocca, ma le sensazioni retrogustative una volta deglutito. Una storia di amicizia al femminile fra due "borderline" , una un pò mitomane, logorroica, snob e l'altra, introversa, depressa, anoressica e fragile.
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Mi piacciono tutti i suoi film; ovosodo, baci e abbracci, la prima cosa bella, il capitale umano, tutti i santi giorni (in particolare quest'ultimo che mi ha fatto conoscere Thony). Ma questo è veramente il più intenso, il più bello. Muove tutte le corde, forse a volte si fa fatica a reggere il coinvolgimento emotivo, si ride, si piange, si pensa e resta...se fosse un vino direi che è di "lunga persistenza" dove per persistenza non si intende la durata del gusto del vino in bocca, ma le sensazioni retrogustative una volta deglutito. Una storia di amicizia al femminile fra due "borderline" , una un pò mitomane, logorroica, snob e l'altra, introversa, depressa, anoressica e fragile...entrambe hanno un grande dolore e il loro contesto sociale di appartenenza (famiglia, uomini, lavoro) non aiuta, anzi, aggrava la loro instabilità psicologica. (Basaglia avrebbe detto - tu avresti voglia di parlare se nessuno ascolta? ) - Ritenute socialmente pericolose, vengono sottoposte a cure riabilitative in una casa di cura e, nonostante l'iniziale ritrosia di Donatella e le loro differenze caratteriali, scoprono di essere funzionali l'una all'altra, si spronano, si danno energia e si migliorano a vicenda. L'una diventa la cura efficace dell'altra, complici, decidono di regalarsi un giorno "on the road" e darsi "alla pazza gioia", alla ricerca di un pò di felicità "senza fine"... come canta Gino Paoli in sottofondo evocando il rapporto mancato di Donatella col padre senza inizio e una sua bugia senza fine,appunto. Un inno alla vita, all'amicizia, all'emozioni vere e condivise. Bravissime le due attrici. Chapeau a Virzi.
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alberto
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sabato 20 maggio 2017
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la speranza di trovare la felicità
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Due pazze fuggono da un manicomio per finirne in un altro, il mondo cosiddetto "normale", ma ricolmo di gente egoista, meschina, approfittatrice, sadica e malvagia. Beatrice e Donatella rappresentano gli opposti che si attragono: la prima è altolocata, snob, e considera spesso la seconda come una cafona, mentre questa è più raccolta in sè stessa e ha alle spalle un passato oscuro, con cui si apre in modo molto misterioso la pellicola: una madre col passeggino del proprio piccino, una triste verità che verrà progressivamente a galla una volta che tra le due si consoliderà un rapporto di confidenza e di immedesimazione, grazie ad un viaggio on the road che dimostrerà di non essere le benvenute nei confronti delle loro vecchie conoscenze.
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Due pazze fuggono da un manicomio per finirne in un altro, il mondo cosiddetto "normale", ma ricolmo di gente egoista, meschina, approfittatrice, sadica e malvagia. Beatrice e Donatella rappresentano gli opposti che si attragono: la prima è altolocata, snob, e considera spesso la seconda come una cafona, mentre questa è più raccolta in sè stessa e ha alle spalle un passato oscuro, con cui si apre in modo molto misterioso la pellicola: una madre col passeggino del proprio piccino, una triste verità che verrà progressivamente a galla una volta che tra le due si consoliderà un rapporto di confidenza e di immedesimazione, grazie ad un viaggio on the road che dimostrerà di non essere le benvenute nei confronti delle loro vecchie conoscenze. Infatti gli ex mariti/compagni vivono tranquilli, senza preoccupazioni, e l'ultima cosa che vorrebbero è rivederle; persino il papà di Donatella è esplicito, dicendo che si deve aiutare da sola. La solitudine, la disperazione e soprattutto i rimpianti sono inevitabili, se non fosse per questa semplice ma necessaria amicizia, un'ancora di salvezza senza la quale la vita di entrambe andrebbe avanti inutilmente, pensando ogni giorno a cosa hanno fatto di male per subire una condanna del genere. Ciò si può notare soprattutto dal finale, che fa capire che la "pazza gioia" non si trova scappando, illudendosi di una vita migliore, ma spesso la si trova accanto: "Meno male che ci sei te!". La sceneggiatura di Paolo Virzì ("Il capitale umano", "Tutta la vita davanti"), anche regista, e Francesca Archibugi è abile a lanciare questo importante messaggio, attraverso una storia che ricorda "Thelma e Louise", amalgamato con la comicità della prima parte, scatenata e all'insegna di stravaganti azioni istintive dovute al senso di libertà, e la drammaticità della seconda, in grado di commuovere e coinvolgere lo spettatore, che entra nella loro mente e comprende che la vera pazzia si trova nelle persone a piede libero, che stuzzicano e provocano troppo quella macchina ancora tutta da scoprire che è il cervello umano. Miglior film agli ultimi David di Donatello, insieme a sceneggiatura, regia, costumi (di Katia Dottori) e attrice a Valeria Bruni Tedeschi, che è in grado sia di far ridere sia di far piangere, grazie ad un'interpretazione impeccabile e spontanea (da ricordare anche la sua emozione nel momento della premiazione ai David). Accanto a lei c'è un'altra grande attrice: Micaela Ramazzotti, perfetta nel ruolo di Donatella, insicura ed enigmatica, moglie del regista e sua musa, fonte d'ispirazione per la caratterizzazione delle due amiche (mentre veniva accompagnata incinta dalla Tedeschi). Virzì ha dichiarato anche l'influenza di "Qualcuno volò sul nido del Cuculo" e "Un tram che si chiama Desiderio", da cui ha preso delle battute. Se poi la conclusione è accompagnata dal brano "Senza Fine" di Gino Paoli il filmone è servito.
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