Premesse la mia misoginia per la gran parte delle pellicole italiane e la convinzione che portare sullo schermo la figura e soprattutto la vita di un uomo come Leopardi è impresa destinata di per sé all'insuccesso, e che, anche in caso di felice riuscita del proposito cinematografico, la concreta trasposizione filmica del soggetto distruggerebbe la magia poetica dell'uomo, che di per sé, in ispecie nel caso del Leopardi, ha i suoi confini più propri nella delineazione critica letteraria, nei suoi versi e nella tempra virile e sociale del suo carattere. Come scriveva De Sanctis, a proposito di quei critici che volevano risalire all’identità della Nerina di Leopardi (figlia di un cocchiere o di un cappellaio?) e confinare la sua figura in una concreta immagine di persona fisica, "ahimè, mi avete ucciso Nerina".
Inizio dalla parte tecnica del film.
Tono scialbo delle riprese. Fotografia afflitta da una leggera patina brumosa; evidente e fastidiosa sovraesposizione degli sfondi dei panorami
Le strade, gli interni e le architetture esterne dei palazzi e dei manufatti stradali del tutto lustre e pulite, denuncianti in modo evidente la preparazione scenica.
Dalle sequenze napoletane in poi la fotografia e la scenografia si ribaltano. Belle inquadrature, credibili frontespizi delle architetture intaccate dal tempo, con superfici disomogenee nella corrosione degli agenti atmosferici.
Qualche bella inquadratura delle vie cittadine; appena uno scorcio di p.zza del Plebiscito e porta Capuana, si poteva fare un bel campo lungo con una visione d'assieme dei luoghi.
Molto bella la scena dell'eruzione del Vesuvio, con il richiamo ai versi de ‘La ginestra’.
Buona colonna musicale.
Nei confini dell’angolazione della narrazione, di talento la recitazione di Elio Germano; simpatica ed appropriata al personaggio Ranieri quella di Michele Riondino; credibile, ben intonata ed incisa quella di Massimo Popolizio (Monaldo, il padre) e dolce quella di Isabella Aragonese nei panni della sorella Paolina.
Per quanto riguarda la narrazione, Il film presenta il poeta come una persona chiusa nei limiti delle sue patologie, dolorante nell'anima per i confini angusti in cui lo circoscrivono le sue limitazioni fisiche e con una visione della realtà vista attraverso il filtro dei suoi mali, quasi un ipocondriaco chino sui suoi acciacchi, intento a leccarsi le ferite.
Eppure proprio nel film vien fatto dire al poeta che il suo problema fisico non è causa causante della sua filosofia di vita, che deriva invece, causa sui, da una sua formazione spirituale personale, formatasi razionalmente in stridio con la vita fisica reale, contro paradisi in terra e chiuse prospettive saggio-proletarie-borghesi monaldesche. Cosa che il poeta ha sempre ribattuto con forza e profonde argomentazioni.
La visione naturalistica-idillica dei suoi versi è di grande tensione poetica, si agita e ruggisce in una tempra non remissiva e succube che dà vita alla radice eroica della poesia leopardiana.
Non un grido isolato di battaglia ma una voce continua, da origini antiche che parla sicura e decisa nel suo declinarsi verso l’unica possibilità, il volere un futuro fatto dall’uomo, abitante abbandonato e solo di questo cosmo, in una nera assenza di scopi.
E in quest' assenza di etica e di qualsivoglia sentimento dell'intero universo, l'unico progresso che può in parte rimediare a questa gelida e vuota realtà della natura è il sodalizio degli uomini (di contro all’uomo “religioso amante del Nulla”), il loro sforzo nell'unione comune per dare un volto e un calore umano a questa ignobile realtà, devastante teatro unico della nostra sofferenza, ("Forse in qual
forma, in quale / Stato che sia, dentro covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale".").
A mio modesto avviso la parte più liricamente sofferta come ‘singolo’ è il suo ardore amoroso, soffocato sul nascere dalla sorte fisica del suo essere, sia quando sommessamente canta la donna ideale ('Alla sua donna’; ‘qui neghittoso immobile giacendo, / il mar, la terra e il ciel miro e sorrido) sia quando rivive nel suo cuore un amore concreto mai nato (‘Aspasia’; ‘…e la perduta / speme de’ giorni miei, di te pensando, / a palpitar mi sveglio.’.) Una data memorabile per Leopardi fu il venerdì 15 febbraio 1823, quando si recò a far visita al sepolcro di Tasso, che tanto lo commosse e gli presentò il contrasto fra l’umile sepoltura del Poeta e quella presuntuosa del ‘poeta’ Guidi, che ‘volle giacere propre magnos Torquato cineres, come dice l’iscrizione’.
E lungo la strada per arrivarvi, descrive come il suo spirito fu colto nei sentimenti più veri, apparendogli con forte impatto emotivo non l'orpello magnificente e scintillante della vuota vanità esteriore ma il rumore della mola, della raspa e lo stridio della sega, che accomuna universalmente gli uomini nella umana ma serena necessità di vita “…le maniere della gente… che si incontra per quella via...la cui vita si fonde sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travagli e non di intrighi”.
Una diffusa ‘interpretazione antiidillica’, vede attraverso la lettura di Walter Binni (La protesta di Leopardi) un grande stimolo di lotta contro le negatività della nostra società nei confronti dell’uomo.
Pertanto non una natura chiusa in un castello appartato sulla cima della montagna, avulso dalla realtà del mondo ma da un fisico debole un puntello su cui fare forza per erigere una grande energia combattiva, di contro ad una realtà nemica, emergente in modo netto e definito da una lucida e maschia indagine e riflessione critica.
Invero, al termine di queste mie impressioni devo dire che reputo notevole e lodevole, pur nei forti limiti che ho creduto di vedervi, il proposito del regista Martone di rappresentare sullo schermo la figura di uno dei nostri massimi poeti, in un'epoca sciocca di spettacoli cinematografici e televisivi.
Ed è pur vero che la poliedricità dello spessore umano del poeta è di difficile delimitazione in una visione univocamente conclusa una volta per tutte.
Uno dei massimi studiosi di Leopardi, Cesare Luporini (assieme a Walter Binni), nella prefazione della riedizione del suo saggio (1947-1980) ‘Leopardi progressivo’ (titolo quanto mai appropriato), scrisse “Da ultimo, oggi toglierei o attenuerei di molto il confronto col <pensiero dialettico>, e non lo configurerei comunque come indicazione di un limite di Leopardi…L’atteggiamento negativo, o via via specificamente contestativo, di Leopardi contiene una tale energia intrinsecamente dialettica, che egli non ha davvero bisogno di siffatti ingabbiamenti”.
Ingabbiare l’uomo nel suo involucro di individuo sarebbe come volere contenere la luce della stella che, comunque, negli anni, giunge lontano a brillare nel cielo dell’uomo.
(paolo patrone)
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