David Lynch (David Keith Lynch) è un attore statunitense, regista, creatore, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, autore effetti, è nato il 20 gennaio 1946 a Missoula, Montana (USA). David Lynch ha oggi 78 anni ed è del segno zodiacale Capricorno.
Certo non era un personaggio nuovo, David Lynch che saliva in palcoscenico nella serata conclusiva del Festival di Cannes 1990 per ricevere da Bernardo Bertolucci la Palma d'oro per Wild at Heart: film barbaro e kitsch, sessuale e umoristico, horror e sentimentale, ironico e delinquenziale, musicalmente clamoroso, girato benissimo, capace di esprimere con demagogia e sfruttare con furbizia gusti e vittimismo giovanili. A causa di quel film, molti critici pochi giorni prima avrebbero voluto vederlo in galera come cattivo maestro e spacciatore di pessimi esempi ai ragazzi; molti altri critici l'avevano applaudito con foga da “groupies” esaltati; e Isabella Rossellini stava li tra le quinte a vederlo premiare, a rimirarselo felice, innamorata. Certo s'erano visti di Lynch il commovente The Elephant Man, il malriuscito Dune, Blue Velvet morboso, romantico e irresistibile, ma in Wild at Heart pareva esprimersi un autore per qualche verso nuovo, come era rinnovato il suo aspetto fisico (capelli corti e qualche capello bianco, aria posata e come stranamente antiquata, abiti programmaticamente rispettosi della correttezza borghese o cerimoniale): un regista americano assolutamente contemporaneo.
Suo padre, ricercatore scientifico, lavorava per il governo. Sua madre badava ai figli, David, un fratello, una sorella. La famiglia vagabondava: Washington, Idaho, Virginia, Boston, Philadelphia. Lui diventava scout, frequentava scuole d'arte, si faceva licenziare in fretta da una serie di lavori brutti, si iscriveva all'American Film Institute di Los Angeles, fumava, imparava a dipingere, faceva fotografie, si sposava, divorziava, si risposava, aveva due figli, ridivorziava, dirigeva film: Eraserhead, commedia nera uscita nel 1977, poi gli altri. L'inizio di Blue Velvet (una tranquilla, pacata, luminosa cittadina americana, la luce calda del sole, i fiori delicati splendenti, e il repentino trasformarsi di tutto in un segreto incubo di violenza) condensa una grande parte della sua poetica, delle sue ossessioni personali.
Durante l'infanzia, racconta Lynch (e magari è un'infanzia reinventata, riadattata all'opera, come capita per tanti artisti), era perennemente diviso tra beatitudine e orrore. Andare a trovare i nonni a Brooklyn, New York, lo avviluppava nella paura: della grande città, delle ventate dei suoni e degli odori della metropolitana, dell'ignoto sotterraneo. Lo spaventava guardare le inserzioni pubblicitarie sui giornali degli anni Cinquanta, donne carine e vestite bene che sorridendo estraevano torte dal forno, coppie carine sorridenti che camminavano tenendosi per mano verso un'automobile scintillante: “ Erano sorrisi strani. Sorrisi dedicati a come il mondo avrebbe dovuto o potuto essere. Mi facevano diventare pazzo, mi facevano sentire come imminente qualcosa di fuori del comune, di catastrofico: erano gli stessi sorrisi che ritrovo sulla mia faccia nelle fotografie famigliari delle feste natalizie, accanto all'albero dei regali”. Le infinite possibilità che qualcosa andasse male, il sospetto che la superficie brillante della realtà nascondesse segreti atroci, la consapevolezza che tutto comincia a degenerare non appena compiuto, lo tenevano in uno stato continuo d'ansia, racconta:
«Così sono evaso nell'altro mondo, nel cinema, per sfuggire a quella forza, a quel dolore selvaggio, a quella decadenza che accompagna ogni cosa»
Courtesy of La Stampa.
David Lynch, 60 anni, il regista americano che Venezia premia col Leone d'Oro per una carriera più unica che rara, autore del nuovo film Inland Empire, misterioso, inquietante, oscuro, ha un'eleganza composta e una vita scomposta. Nell'ultimo tempo ha fatto almeno due cose inconsuete. Ha sposato la montatrice bravissima dei suoi film, Mary Sweeney, amica da sempre. madre d'un suo tiglio tredicenne: e dopo poche settimane ha divorziato. Ha quasi cambiato mestiere, inaugurando una sua Foundation for Consciousness-Based Education & World Peace che insegna yoga e meditazione ispirata al pensiero di Maharishi Maesh.
Affascina tutti, con passioni brevi: dalla prima moglie divorziò dopo la nascita di due figli, maschio e femmina (quest'ultima, Jennifer, nacque con una malformazione ai piedi), un grande amore con Isabella Rossellini non riuscì a durare a lungo. È nato a Mìssoula, nel Montana. Il padre era ricercatore per il corpo forestale, la famiglia viveva in continua migrazione: a Sandpoint nell'Idaho, a Spokane nello Stato di Washington, a Boise, ad Alexandria in Virginia. Nel ‘64 Lynch comincia a studiare pittura a Boston, viaggia in Europa (Salisburgo. Atene), si convince che «nella vita dell'artista non ci si sposa e non ci sono famiglie». Tenta il cinema «per espandere le atmosfere della pittura, per fare una specie di pittura in movimento»; per uno dei suoi primi corti dipinge di nero l'intero terzo piano della sua casa e filma un bambino disturbato che pianta un seme, lo annaffia, lo coltiva, e ne vede nascere una nonna. II primo lungometraggio è Eraserhead: lavora cinque anni, dai ‘71 al ‘76, a quella storia d'una paternità mostruosa, e nessuno vuole vederla. Seguono Elephant Man, Dune, Velluto blu, Cuore selvaggio (Palma d'Oro a Cannes, presidente della giuria Bernardo Bertolucci), Mullholland Drive e altri film ammirati, premiati.
Lynch fa un bellissimo cinema d'atmosfere: il racconto può essere sgangherato o perdersi, l'atmosfera intensa e forte (come nel televisivo Twin Peaks, gran successo mondiale) ammalia gli spettatori. Ama raccontare come la provincia idillica nasconda l'orrore; come i prati celino insetti, forma infima della scala evolutiva; come pesi sull'uomo una minaccia perenne di salto nel vuoto; come il male possa essere commovente, straziante; come nascita e morte siano i momenti alti dell'esistenza. Torbido, magnifico: è davvero giusto premiare David Lynch, stella nera del cinema.
Da Lo Specchio, 26 agosto 2006
Se David Lynch, il regista americano che la 63° Mostra di Venezia premia con un Leone d'Oro per la sua carriera più unica che rara, autore del nuovo film Inland Empire, si sposa con la bravissima montatrice dei suoi film Mary Sweeny, madre di un loro figlio tredicenne, amica da sempre, divorzia poche settimane dopo. Se, compiuti i 60 anni, vuole fare qualcosa per gli altri, quasi cambia mestiere: creando una Foundation che insegni yoga e meditazione trascendentale secondo il pensiero di Maharishi Maesh.
Se deve presentare un saggio all'Axnerican Film Institute, dipinge di nero l'intero terzo piano della sua casa e dirige un film in cui un ragazzino disturbato pianta un seme a terra, lo annaffia, lo cura, lo coltiva, sinché non ne nasce una nonna (i nonni sono stati felici compagni della sua infanzia). Se deve disegnare (sa farlo benissimo. Ha cominciato come pittore passando al cinema per «estendere al cinema le atmosfere della pittura, una specie di pittura in movimento») una striscia a fumetti settimanale per L.A. Reader, il disegno non cambia mai: c'è sempre un cane furioso che digrigna i denti alle banalità del mondo esposte nelle nuvolette. Se sposa una compagna di studi da cui presto divorzia, e dei due figli la femmina, Jennifer, nasce con una malformazione ai piedi, dirige Eraserhead su una paternità mostruosa, suo primo lungometraggio costato cinque anni di lavoro, visto da 25 persone la sera della prima a New York nel 1977, divenuto un film di culto.
Se la società di produzione di Mel Brooks gli offre nel 1980 la regia de L'uomo elefante con John Hurt, il film diventa non soltanto la biografia ottocentesca dei mostruoso inglese John C. Merrick, prima fenomeno da baraccone, poi ospite privilegiato dell'aristocrazia londinese, ma un'opera fortunatissima sulla dignità e sul dolore, su quanto il brutto possa essere straziante, commovente. Se Dino De Laurentiis gli propone nel 1984 la regia di Dune ispirato al best-sellers di Frank Herbert, colossale saga epica, né fa un fiasco o quasi: l'unico della sua vita professionale. Se nel 1990 la rete televisiva ABC accetta l'idea di un serial dedicato ai misteri di una cittadina americana di provincia, I segreti di Twin Peaks, il programma ha grande successo internazionale, ottiene risultati che superano ogni previsione e rendono celebre nel mondo, anche a livello popolare, il nome di David Lynch. Pure in Italia escono sue biografie: la più affascinante è quella scritta da Alessandro Camon. Cuore selvaggio (Palma d'Oro a Cannes, presidente della giuria Bernardo Bertolucci), Velluto blu, Mulholland Drive e altri film rafforzano e sostengono la sua celebrità, l'amore dei fan soprattutto giovani, la stima e il rispetto degli accademici e degli amanti della modernità vera.
Lynch fa un bellissimo cinema di atmosfere, di dettagli, di mistero. Nei suoi film la provincia idillica del Sogno Americano è sempre la superficie agghindata dell'orrore; il colore delicato o splendente dei fiori nasconde il vorace brulicare degli insetti, forma bassa della scala evolutiva; sull'uomo pesa sempre una minaccia perenne di salto nel vuoto e di morte, una passione felice aspetta l'abbandono, la distrazione, il tradimento. Il sadismo, naturalmente, è sempre un occulto masochismo. Nessuno ci salva dalle contraddizioni del mondo. Il clima sospeso, misterioso, pauroso che Lynch è capace di creare, i suoi interrogativi insistenti (Chi ha ucciso Laura Palmer?) alimentano un'opera ammirevole, unica come la sua capacità di cancellare l'antagonismo tra cinema e tv.
Nato a Missoula, nel Montana, è un uomo alto, di pelle bianchissima, con una testa di forma stranamente geometrica, con capelli spesso ritti come fosse elettrizzato, bravo pittore, bravo fotografo, ex amante di Isabella Rossellini: composto, combattuto, laconico. Chissà cosa celerebbe tanta qualità, in un film di David Lynch.
Da La Stampa, 31 agosto 2006
The director talks about why any screen format is good for meditation, why he’s doing his own weather report for your laptop and why he’s not filming his fourth wedding.
This interview is scheduled to appear in a special issue on screens, so let’s start by contemplating the current fascination with the small screen.
That’s a terrible subject. There’s nothing like the big screen. The cinema is really built for the big screen and big sound, so that a person can go into another world and have an experience. As an example, there’s Stanley Kubrick’s “2001:A Space Odyssey” — this would be kind of a pathetic joke on a little screen.
How do you feel about someone watching your films — “Eraserhead,” “Blue Velvet,” “Mulholland Drive” — on a laptop?
More and more people are seeing the films on computers — lousy sound, lousy picture — and they think they’ve seen the film, but they really haven’t.
Because the small screen emphasizes plot over visuals?
It’s a pathetic horror story.
On the other hand, you do appear on countless computer screens every day, giving a weather report from your home in Los Angeles, on your Web site.
People are kind of interested in weather. It’s not artistic. It’s just me sitting there in my painting studio.
Who films you?
It’s a camera that comes down out of the ceiling.
I hear you’re starting an online series on transcendental meditation, based on your book “Catching the Big Fish.” Is the small screen a good format for discussing meditation?
Any format is a good format for meditation. Every single person has within an ocean of pure vibrant consciousness. Every single human being can experience that — infinite intelligence, infinite creativity, infinite happiness, infinite energy, infinite dynamic peace.
Tell us about your foundation.
The David Lynch Foundation for Consciousness-Based Education and World Peace — we raise money to give meditation to any student or school. There is a huge waiting list.
As a devotee of cultivated bliss, how do you explain the proclivity for twisted eroticism and dismembered body parts in your films?
A filmmaker doesn’t have to suffer to show suffering. You just have to understand it. You don’t have to die to shoot a death scene.
Do you see yourself as an American Surrealist?
Dennis Hopper called me that, and that is the way he sees it. It’s more than just Surrealism to me.
I think of you as someone who transported the noir sensibility from the city into a Norman Rockwell setting. What do you think of his paintings?
I love his work. It’s like Edward Hopper. They see a certain thing, and they catch it.
What is that clock you’re holding in this photograph?
I just didn’t want to stand there like an idiot. It’s an old clock, but I am building this plastic bubble around it.
Is it a sculpture?
In a way it is. You mentioned Surrealism, and time was very important to the Surrealists.
But Dali painted melting clocks, and yours isn’t melting, is it?
It’s not melting, no. But part of it is made of polyester resin, which at one time was liquid.
I hear you’re getting married again.
In February. I’m marrying a girl named Emily Stofle.
Is she an actress? Was she in any of your films?
She was just in one, “Inland Empire.”
You’ve been married three times before?
Yeah, it’s real great.
Why would someone who feels so generally blissed out marry so many times?
Well, we live in the field of relativity. Things change.
Do you plan to film your wedding?
No. It’s a hassle. So many things these days are made to look at later. Why not just have the experience and remember it?
Because most people have the experience and forget it.
Some things we forget. But many things we remember on the mental screen, which is the biggest screen of all.
Da The New York Times Magazine, 23 novembre 2008
Ogni passione spenta - intendo la passione che ha scatenato in un certo circolo della critica e del pubblico, giusto dieci anni fa, un film diventato di culto qual è Velluto blu - come si deve guardare a David Lynch? Come a un grande regista che si è poi perso all'incrocio tra invenzione e grande produzione? Come al rappresentante di una moda (passeggera) che è stata utile per un momento di svecchiamento e di rottura, ma che non ha saputo diventare uno stile coerente incarnato in un corpus di opere im-~ portanti? Sostiene John Pierson, autore di un recente libro sul cinema indipendente americano, che Lynch è noto in America ormai solo come autore di un telefilm di nome Twin Peaks. Forse è troppo poco. Ma forse il suo culto è stato eccessivo: la ricerca del nuovo Welles, che si è ripetuta uguale con il caso Tarantino un decennio dopo.
David Lynch ha studiato pittura (al Boston Museum of Fine Arts e alla Pennsylvania Academy of Fine Arts), quindi, dopo un breve viaggio europeo, ha frequentato l'American Film Institute, dove ha cominciato il film che lo ha reso noto alla tribù dei cinefili, Eraserhead - La mente che cancella (1978): un privatissimo, repulsivo e ipnotico incubo sulla maternità molto vicino, per atmosfere e intenti, al cinema d'avanguardia. The Elephant Man (1980), che pure conserva in ogni inquadratura l'amara visione di Lynch e la sua predilezione per un mondo di freaks, fu il suo tentativo di avvicinarsi al cinema tradizionale - così come Dune (1984), prodotto e massacrato da De Laurentiis, fu quello di avvicinarsi al “genere”, - in questo caso la fantasy -, riletto secondo la visione nera cara al regista.
L'esplosione del suo culto si registrò però con Velluto blu (1986), che a molti - purtroppo non a me - è sembrato un capolavoro destinato ad affiancarsi ad altri classici sulla profonda provincia Usa: un percorso in un mondo impazzito, dove l'amore e il sesso sono distorti dalla patologia e la violenza permea ogni momento, in contrasto con le idilliache apparenze della Piccola Città Americana.
Alla Piccola Città Lynch ritornerà, dopo la pausa insensata di Cuore selvaggio (una delle Palme d'oro più sconsideratamente assegnate) con le parti da lui firmate per il serial televisivo Twin peaks, dove ricicla e sfrutta con stile gli elementi più perturbanti di Velluto blu, cercando di portare, come ha scritto David Thompson, “Magritte alle masse”. Forse è stato solo abile e accorto. Ad altre serie tv - American Chronicles, On the Air - e a Hotel Room, prodotto per la HBO, di cui Lynch firma due episodi su tre, va aggiunto (e possibilmente dimenticato), Fuoco cammina con me! (1992), un pasticcio inimmaginabile. Dov'è finito il regista che doveva diventare il nuovo Welles? Ha fatto proseliti...
Da Irene Bignardi, Il declino dell'impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
L'ha detto lui coss'e il suo cinema e «l'essere persi nell'oscurità e nella confusione». E l'essere qui, in un posto familiare, come all'inizio di Velluto blu non è uno dei più stupefacenti “attacchi“ di cinema mai visti?), in una Lumberton sotto un bel cielo blu, dove le energiche rose e gli stanchi tulipani crescono vicini a una bianca staccionata, dove passa il carro dei pompieri, i ragazzini vanno a scuola, una signora beve il tè, un signore qualsiasi bagna il giardino, dove tutto insomma è come deve essere: e d'improvviso l'uomo viene colpito da un infarto, e d'improvviso la macchina da presa lo lascia al suo destino per infilarsi sotto terra a scoprire un cannibalesco combattersi dí insetti, accompagnato da un cupo rimbombare di rumori e schiocchi e macinar di ganasce…
David Lynch sa come rendere esile il confine tra ciò che ci è consueto e ciò che ci appare vertiginosamente vuoto e senza fondamento. Deve avercele nel sangue e nelle sinapsi queste cose, lui nato nel Montana, nel 1946, il 20 gennaio (stesso giorno di Fellini), che a due mesi si sposta con i suoi nell'Idaho, poi nello stato di Washington, poi in North Carolina, ancora nell'Idaho e poi in Virginia. Una vita nomade, fatta di luoghi e strade in un'America clic nei suoi film può assumere i contorni della più tranquilla normalità come della più inconfessabile inquietudine.
Perché Lynch, grande illustratore, narratore e inventore della nostra contemporaneità, è regista a più facce. È certamente il regista del mostruoso e dell'ignoto, come nel film d'esordio, Eraserhead, percorso dagli incubi e dall'angoscia. E il Lynch che va alla ricerca nei baracconi di una fiera, in The Elephant Man, di un povero freak, ridotto ad attrazione repellente, nel tentativo di fino diventare, per tutti, un essere umano. E anche il Lynch che si butta nell'impresa di cammina con me!, il suo film meno difendibile. Si trova con Strade perdute, noir paradossale, con più di uno sconfinamento nell'insensato. Sorprendentemente, si rimette con i piedi ben piantati sulla terra d'America in Una storia vera, inno alla lentezza e storia di una dolorosa e necessaria riscoperta di se stessi prima di perdersi dentro le stelle di un cielo spesso guardato e desiderato. Infine si rituffa nell'oscurità e nei labirinti del mondi paralleli, tra liquidi flashback e identità inafferrabili, nel puzzle sconcertante di Mulholland Drive, galleria di tutti i suoi motivi e personaggi.
Decisamente doppio, triplo, plurimo Lynch. In Twin Peaks c'è un ciondolo fatto come un cuore spezzato in due. Una parte viene ritrovata. L'altra metà del cuore, come dicono lo sceriffo e l'agente Cooper, bisogna scoprire chi la nasconde. Lynch va cercandola di film in film.
Da Film Tv, n. 18, 2004
Più specificatamente Lynch con Eraserhead entra nel buio della mente, nelle pieghe di un orrore metafisico in cui si dilatano le allucinate visioni di un mondo chiuso in se stesso, con le luci ottuse di un espressionismo da camera. Gli interni si pongono come luoghi metafisici, dove il ferrigno rumore di macchinari invisibili, il continuo angoscioso suono del vento innescano meccanismi di memorie che lambiscono ricordi obsoleti, immaginari paesaggi di solitudine. In questo territorio remoto vivono i personaggi di una allucinazione contemporanea, ectoplasmi sublimi, spermatozoi ingranditi sino a divenire il lucido mostro urlante, che palpita e si decompone; e creature al limite, come la donna-ballerina dei sogni e quella del pianerottolo, invitante seduzione notturna. Lynch scruta le pareti di una casa dalle finestre murate, penetra con lo sguardo oltre i radiatori per osservare i microrganismi di un reale sfatto, di un immaginario ai limiti di una citazione del surreale (Magritte, Richter, Bunuel), come se volesse smontare i meccanismi della percezione per penetrare negli attimi irripetibili degli accadimenti e scomporre la realtà oggettiva in tante emozioni, nella flagranza dell'inavvertito, come pulsione maligna, liquame spermatico di un desiderio rimandato e perverso. Con Elephant Man le strutture dell'immaginario si spostano verso una figuratività ottocentesca, verso una mostruosità nascosta da quel telo che ricopre il volto di John Hurt, maschera di una maschera freaks, perturbante doloroso di un uomo respinto ai margini. Un bianco e nero molto contrastato, elabora un'aura inquietante, che traspone, in una patina di antica stampa vittoriana, il crudele gioco dell'uomo-elefante, e avvolge nella distanza del tempo, un paesaggio interiore, che rovescia il melodramma in un imprevisto gioco surrealista, si veda la sequenza del mostro in un salotto borghese: quel breve momento in cui prende il tè, è come gli incontri impossibili di Man Ray, 'bello come l'incontro fortuito tra una macchina da cucire e un ombrello'.
Questa attenzione a uno spazio percettivo mentale, occluso in un universo claustrofobico si accentua in Dune che recupera attraverso un occhio smisurato le remote distanze dei secoli di un Futuro, dove gli oggetti e i corpi hanno come una fascinazione primordiale, bronzei e pesanti le macchine, mostruosi e fetali i grumi di carne. Qui un surreale da fantascienza si sposa con un Futuro che ha memoria del passato, in cui l'Ulisse ritrova l'Utopia. In un remoto periodo futuro, l'anno 10.091 Lynch delinea uno spazio percettivo che la distanziazione nel tempo, restituisce alla libera invenzione di un delirio visivo rivestendo il Grande Assoluto di forme che raccordano Verne a Rabelais, in un incredibile gioco di metafore, tra macchine 'straordinarie' e corpi smisurati. La luce ottusa, piena di ombre, ha il colore del rame, delle unità claustrofobiche, delle penombre implosive che minacciano continuamente catastrofi e si estende in città sotterranee e in impervi desertici, dove vermi giganti dilacerano le distese di sabbia. Palazzi barocchi, saloni immensi, macchinari di rame e di bronzo costituiscono il territorio preistorico di questo universo futuro, proiettato nella Nuova Rinascenza dove persiste un passato in cui le cose costruite dall'uomo ancora resistono; l'Utopia è questo tempo trascorso che diviene memoria, in una immobilità che accentua il senso del panico. La stessa accentuazione panica che si ritrova in Blu Velvet, nell'immobilità di un morto in piedi, surreale come certe composizioni di Edward Hopper, dondolante in un inerzia senza spazio e senza tempo, dove tutto quel che accade è dato come mentalmente accaduto. Ancora una volta Lynch agisce sui meccanismi del tempo ricomponendo lo spazio sonoro in forme inaudite e sottolinea, con quell'orecchio tagliato trovato per terra, l'invito ad entrare in questa sua impietosa dimensione, che attiene alla pulsione crudele di Bacon, nella messa in scena di questa discesa agli inferi. Occhio e orecchio sono simboli concreti, visione e suono, dilatati e spessi, di questo magma diegetico, furioso di passione interiore, di una ossessione claustrofobica che permea di sé tutto un mondo sotterraneo. In questa datazione da anni cinquanta, Lynch contamina il paesaggio, affabula un mondo malato, come immerso in un clima di panico; inverte le storie e trasferisce nella piccola città di Lumberton, dove è ambientato il film, uno spirito est-europeo, allo stesso tempo innocente e perverso, luminoso e buio. Lo stesso accade con Twin Peaks, dove il flusso della narrazione continua a svilupparsi attraverso le illuminazioni e gli eventi dal senso sospeso, in una piccola cittadina, nella logica che si affida agli accostamenti apparentemente casuali, in debito, ancora, con certo surrealismo, in una continua trasgressione visiva. Personaggi ambigui, ragazze intriganti, nani deformi, e il richiamo a enigmi irrisolti, chiusi come in una scatola cinese, fanno parte di un meccanismo più percettivo che diegetico, di linee portanti un clima perturbante, che rende misteriosi i rapporti e segrete le pulsioni sessuali. Laura Palmer continuerà ad evocare gli intricati percorsi della memoria, e le voci interiori, con gli aberranti imprevisti sviluppi carichi, come sono, di citazioni colte e di invasioni oniriche, intessono un clima iper-codificato (sopratutto nei seguiti degli episodi televisivi). In Fire walks with me, gli ultimi giorni che precedono la morte, sono visti attraverso una messinscena allucinata, in una perdita di identità che inserisce un assoluto distacco. Fantasmi, corpi abbrutiti, ombre affondano nella situazione di incubo, tra piani spezzati e figure lievitate nello spazio mentale, dove in sospensione resistono irrisolti tutti i misteri di questa 'piccola città': forse una 'Brigadoon' rovesciata in una parabola labirintica di cui si e perso il filo d'Arianna.
Ancora iscritto in un universo fintato, chiuso in un immaginario, questa volta pieno di sprazzi luminosi e di accensioni improvvise, dove la pop art si sposa con la musica rock, nel sole di una avventura sull'asfalto, tra favola e sesso, Wild at Heart si impone come un assoluto mentale, digressione metafisica sul grande romanzo - Dickens e i suoi mostri crudeli - calato con i suoi raggiri da melodramma nei più vicini anni cinquanta. Forse non è neanche esatto cercare di datare un film come questo, ricco di fermenti vitali, di violenza e di dolce, costruzione perfetta di un sogno americano, tra scintillii e squallori, in un percorso di sogno che sottende angosce e storie crudeli. Nonostante l'abbaglio delle luci e dei colori Lynch continua il suo percorso nel buio intricato degli incubi, rivive a suo modo il pesante barocchismo di Tennessee Williams, ridisegnando i personaggi di Pelle di serpente, la loro accidia saturnina, l'indecisione, gli abbandoni violenti, in un orrore quotidiano immerso in una atmosfera forte di suoni e di odori. Quella squallida camera di motel, con il tanfo di vomito che si coagula nell'aria per più giorni, oltrepassa il lato realistico per assumere i contorni di una piaga purulenta, dove altri personaggi si incontrano prima della moritat che conclude i percorsi dell'incubo. Qui i corpi tagliati ricompongono il riferimento al sogno surreale, al gioco al massacro, alle 'equazioni shakespeariane' diMan Ray e aprono inaspettatamente al finale romantico con la canzone di Presley Love me tender. Che suggella l'apoteosi finale superando le mille e una avventure di stampo vittoriano, e restituisce il suo fascino maledetto a questa rivisitazione di un immaginario barocco, iperrealista. La stessa cosa si determina con Lost Highway che estremizza questa scelta stilistica, introducendo una ulteriore frattura tra spazio e tempo. La percezione del quasi invisibile diviene il vero soggetto, che disperde nella sensazione, complica l'intrigo, il racconto. I personaggi diventano altro, si interscambiano nel gioco dei corpi, la ragazza e l'amante del boss, l'uomo e il meccanico - in una soluzione patologica racchiusa in uno spazio mentale. Un film sull'errare, sulle ellissi, sulle interferenze narrative, rivissute attraverso i segni dell'inconscio automatico di un surreale che conserva anche nell'allucinazione una sua filosofia di relazione con il reale. Insite nella stessa percezione, le forme immaginare di Lynch raggiungono intensità visionarie, che spostano la ragione verso un divenire metafisico, in una zona dove ciò che accade è già accaduto, quasi un ricordo impreciso di sensazioni e realtà. " Il modo con cui ricordo le cose non e necessariamente quello in cui sono accadute": la battuta del protagonista e la reificazione di una memoria trasposta, l'atto mentale di una allucinazione che 'si fa' cosa; la narrazione si infrange in una logica che smarrisce l'identità e i percorsi, che gioca sull'illusione visiva, perdendosi su quella striscia bianca dell'autostrada che corre come leitmotiv di una poetica della sublimazione. I personaggi si incontrano e si perdono come in un sogno filosofico dove i fatti razionalizzano percettivamente quella 'finzione' di irreale che secondo Longino ' provoca stupore.
Nella reiterazione di memorie sfalsate, il prima e il dopo non sono più cronologici, Lynch rompe questa costrizione temporale all'inseguimento di un altra temporalità; ne osserva e ne rappresenta i segni ed esasperando i modelli diegetici ritrae i mostri inquietanti di Eraserhead, di Elephant Man di Twin Peaks, connette i deliri di Blue Velvet ai sensi scoperti di Wild a Heart. Sono saltate le connessioni, le situazioni disegnano una mappa surreale, che è -un concentrato di sogni e risvegli, dove i suoni, le voci si fondono in una phoné inquietante. Anche le superfici della casa con cui inizia The Straight Story nella campagna dello Yowa sono inquietanti e insicure; la mdp in carrello che avanza accarezzando queste mura in una rassicurante visione 'sembra nascondere una insidia, come se da un momento all'altro quel corpo di donna disteso sul lettino nel prato, in quel silenzio improvvisamente interrotto, fosse un inganno. Ma la 'lente' di Lynch che ingrandisce il dettaglio e penetra sin dentro i segni impercettibili, qui acquieta e questa sua 'semiotica dello sguardo, che lega la presentazione all'espressione del dentro e il 'ritratto' dell'uomo alla sua moralità, capovolge solo apparentemente il sistema espressivo, lasciando intatte le figure stilistiche e legandosi di più a una partecipazione antropomorfica. Si avverte nei gesti quotidiani, nella caduta improvvisa del vecchio Straight, nell'affanno immediato degli altri, nel rischio di un viaggio solitario per incontrare il fratello malato (più vecchio), una ramificazione di segni imprevisti, in cui la regola va oltre l'enunciato in una 'suspence' che si attua nell'accadimento. Lo scrupolo con cui i dettagli, i movimenti e i gesti costruiscono il personaggio è regolato sul linguaggio e sul corpo, a sua volta determinati dalla voglia di parlare e dall'epica del suo sguardo. Il paesaggio che dissolve nello spazio evoca una reiterazione continua e determina l'ansia e l'attesa; e anche i ricordi, disegnando nell'aria la figura del bambino che rincorre la palla e lo sguardo doloroso della madre. Il principio analogico è inseparabile dal principio antropologico, entra nel disegno di un carattere: il viaggio attraverso l'America sul taglia-erba, dallo Yowa al Wisconsin, e metafora di una conoscenza etnografica, di un'epica del territorio, di un piacere ostinato e solitario che lo porta a 'scoprire' un mondo fuori casa con il gusto di 'leggere' un paesaggio umano attraverso volti, incontri, paure inesistenti. Questo piacere, che potremmo chiamare negativo del sublime, costituisce la sorpresa di una America tollerante, che risolve i continui stati di angoscia e di paura in forme di inattesa positività, luogo, come negli altri suoi film, iscritto in un universo fintato, nelle forme perverse dei grandi silos, di abitazioni anonime, di larghe strade vuote, improvvisamente popolate e poi di nuovo solitarie, questa volta chiuso in un immaginario anche letterario. Si risente il respiro rapsodico di un Whitman o il taglio gotico di un Faulkner senza precisi riferimenti, di un mondo appartato, chiuso nelle sue tradizioni, assetato di ordine, ma fuori dal mondo, quasi senza storia. Un'America metafisica, un Grande Spazio dove, finalmente i due fratelli si ritrovano, sotto le stelle come dentro un grande specchio, a sua volta metafora di una specularità esistenziale. L'aforisma di pensiero appartiene alla frontiera filosofica di Lynch passa, attraverso le stesse maglie espressive, alternando improvvise sorprese che svelano uguali gesti abissali, uguali forme poetiche. Mulholland Drive è l'arteria di Los Angeles vicina a quel Sunset Boulevard che rappresenta Hollyvood, quindi il cinema come territorio assoluto, dove tutto accade in una logica a sé, in un rovesciamento tutto visionario, paradossale del senso, in una circolarità dove il non-senso può essere inghiottito dal senso. Nel film intitolato Mulholland Drive Lynch prosegue questo suo percorso negli inestricabili risvolti mentali, entraed esce da un segno di realtà, mette insieme più mondi e interferisce - nel senso anche di 'ferisce' - quasi in una schizofrenia manifesta; dové domina l'imprevedibilità. Hollywood-cinema entra con la grandiosa visione del contrappunto tra intenzioni e condizionamenti, in quelle scene allucinate dell'imposizione produttiva, con gli echi di una impositività metafisica con risvolti onirici assurdi, in quelle di gratuita violenza risolti a colpi di pistola nella quasi quotidianità del lavoro burocratico e in quelle stupende del provino, dove si materializza finalmente la forza dell'emozione tra finzione e verità. In questa concreta fattualità che si addensa di sorpresa e ironia, Lynch riesce a reificare il sentimento dell'ansia e irretire il diegetico nel regime dell'assurdo impietoso, svelando una serie di impulsi impudenti che nel ritratto verginale della fanciulla sembravano esclusi. Ma è nella finzione che si scopre il carattere di fondo, che si ritrovano nei risvolti drammatici - nell'urlo e nello spasmo - quel senso artaudiano dell'allucinazione, quella follia regressiva e perversa della notte dell'esclusione. Così il film diviene il viaggio speculare di un incubo, il percorso nel sogno di un reale fantasmatico, tragitto mentale di una serie di luoghi bui, ottusi, precipitati. In questo senso si ritrovano gli echi di tutti i suoi film precedenti, Lynch trascina con sé, come in una ripetizione, qualcosa che è accaduto fisicamente, l'eco di una realtà semanticamente costruita che lo involge come la 'sua' realtà-esperienza. Tutto è perturbante, tutto si ripropone come un 'male oscuro', come uno stato di premonizione. Coesistono più strati di pensiero, e coesistono più mondi, come un territorio ondulato in continua oscillazione, dove un pensiero riordina in uno scarto paradossale lo sviluppo di un reale fantastico. Il luogo chiuso del teatro 'El Silencio' gioca questo enclave metafisico, sposta il senso dal significato, sdoppia la causa e l'effetto, il canto appassionato dalla commozione della cantante, il gesto dal risultato. Si tratta di un uso delle immagini come metafore che non sono metafore, piuttosto spie di un perturbante ipnotico, di un onirismo provocato, quasi indotto da droga. Così le apparizioni del mostro o la visione del proprio corpo disfatto dalla putrefazione, come dai vuoti di memoria improvvisi disseminati dalle tensioni affettive tra le due donne perdute in una bèance sessuale.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006