Pedro Almodóvar (Pedro Almodóvar Caballero) è un attore spagnolo, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, è nato il 25 settembre 1949 a Ciudad Real (Spagna). Al cinema il 5 dicembre 2024 con il film La stanza accanto. Pedro Almodóvar ha oggi 75 anni ed è del segno zodiacale Bilancia.
Nasce negli anni '50 a Calzada de Calatrava, provincia di Ciudad Real, nel cuore della regio-ne La Mancia. All'età di otto anni si trasferisce con la famiglia in Estremadura. Qui compirà i suoi studi liceali, i primi anni presso i Padri Salesiani e gli ultimi presso i Padri Francescani. A sedici anni si rende indipendente dalla fami-glia e si trasferisce a Madrid, senza soldi né lavo-ro, ma con un progetto molto concreto: studiare e fare cinema. Impossibile iscriversi alla Scuola Ufficiale di Cinema, Franco la ha appena fatta chiudere. Dal momento che non può imparare il linguaggio del cinema, decide di apprenderne il contenuto, ossia la vita, vivere... Nonostante la dittatura soffochi il paese, per un adolescente che viene dalla provincia, Madrid rappresenta la cultura, l'indipendenza e la libertà. Lavora spo-radicamente accettando impieghi di varia natura ma riuscirà a permettersi l'acquisto della sua prima cinepresa Super 8 soltanto una volta con-seguito un lavoro serio presso la Compañía Telefónica de España (N.d.T.: la Compagnia Nazionale dei Telefoni), dove resterà per dodici anni lavorando come impiegato amministrativo, dodici anni durante i quali svolgerà, contempo-raneamente, una serie di altre attività che signi-ficheranno la sua vera formazione sia come cineasta che come persona. La mattina, presso la società telefonica, ha l'opportunità di conoscere a fondo la borghesia spagnola degli inizi dell'era del consumismo, con i suoi drammi e le sue miserie, un filone completo per un futuro narra-tore. La sera, la notte scrive, ama, fa teatro col mitico gruppo indipendente Los Goliardos, gira film in Super 8 (sua unica scuola come cineasta). Collabora con diverse riviste underground, scrive racconti, alcuni dei quali vengono pubblicati. È membro di un gruppo punk rock parodistico, Almodóvar e McNamara. Per sua fortuna l'uscita del suo primo film nei cinema coincide con la nascita della democrazia spagnola. Dopo un anno e mezzo di riprese avventurose in 16 mm, nel 1980 esce Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, un film senza budget, realizzato in cooperativa col resto della troupe composta di soli debuttanti ad eccezione di Carmen Maura. Nel 1986, fonda col fratello Agustín la casa di produzione El Deseo S.A.. Il suo primo proget-to è La legge del desiderio. Da allora i due fratelli hanno prodotto tutti i film che Pedro ha scritto e diretto nonché diverse opere di altri giovani registi. Produce tre film molto speciali, apprezzati in tutto il mondo per il rischio e la delicatezza che com-portano i temi affrontati(La mia vita senza me, La niña santa e La vita segreta delle parole). Nel 2004, il film La mala educación viene scel-to per inaugurare il Festival di Cannes. Raccoglie critiche straordinarie in tutto il mondo. Riceve numerose nomination (Indipendent Spirit Awards, Bafta, César, Premi Europei del Cinema) e ottiene il prestigioso premio al Miglior Film Straniero del Circolo dei Critici di New York, nonché il Nastro d'Argento. Almodóvar probabilmente è il regista che oggi gode di maggior libertà e indipendenza nel pro-prio lavoro.
John Malkovich si è conquistato l'inedito onore di non essere solo il protagonista ma di avere anche il suo nome nel titolo del bel film che si chiamava, appunto, Essere John Malkovich, dove si intrecciavano realtà e finzione. Ma un romanzo scritto in forma di autobiografia da un Io che si ritiene il personaggio ideale per Almodóvar, e che unisce il cinema e la scrittura narrativa, va al di là. E di un bel libro si tratta, Il teorema di Almodóvar, di un autore al suo primo romanzo, Àntoni Casas Ros (Luanda). Certo Almodóvar, che del romanzo di Casas Ros è un personaggio e l'ispiratore, sarà perfettamente al corrente dell'esistenza del libro. Non si sa se stia prendendo in considerazione l'ipotesi di farne il film che realizza nella finzione del romanzo. Ma c'è in effetti un sapore almodovariano in questa breve cronaca di una infelice giovinezza.
Senza offesa, quando il protagonista, che guarda caso si chiama Antoni come l'autore, parla della sua faccia cubista, risultato di un tragico incidente e di cure sbagliate, viene da pensare alla straordinaria Rossy de Palma, la donna più picassiana dello schermo (anche se Antoni dipinge se stesso in maniera estrema, come una sorta di Urlo di Munch). E il bel transessuale Lisa, che consola la reclusione e la solitudine del protagonista, chiuso da anni nel suo isolamento e nella sua mansarda di Genova senza contatti se non via web con il mondo esterno, ci ricorda tutte le meravigliose ambiguità sessuali di cui si nutre la poetica di Don Pedro de La Mancha.
Infine, tra qualche notazione spiritosamente filosofica e qualche teorema (Antoni è un matematico di qualità e un cultore di Newton) c'è proprio lui, Pedro Almodóvar, impegnato in quello che Casas Ros scopre essere (fare cinema) il mestiere più noioso del mondo.
L'intreccio tra la biografia dell'autore (di cui sappiamo poco), il romanzesco del libro e l'ambizione cinematografica dà la vertigine. Ma il discorso è chiaro: c'è bellezza al di là di quella che chiamiamo convenzionalmente bellezza. Pedro Almodóvar lo sa benissimo e ce l'ha sempre raccontato.
Da Il Venerdì di Repubblica, 3 aprile 2009
Pedro Almodòvar, gran maestro spagnolo del cinema europeo, non è mai stato ipocrita rispetto alla propria omosessualità, ma con La ma/a educaciòn ha fatto davvero un film gay esplicito e appassionato, con esercizi di sesso e sussulti di sentimento ugualmente schietti: e forti come una confidenza, come se a cinquantatré anni fosse stufo di fare sul tema lo spiritoso o il parossistico e volesse arrivare a una sincerità piena Il film, che racconta un triangolo amoroso maschile (due ragazzini e il prete direttore del loro collegio) e tre versioni della medesima vicenda, è un poco confuso: dicono che sia nato per essere un episodio del trittico Eros (altri autori, Antonioni e Wong Kar-wai), poi ritirato, elaborato, allungato. Ma è struggente, bello: e serio.
Ci sono due periodi nel percorso incantevole di Almodòvar, nato e cresciuto nella provincia spagnola più misera, la Mancha, emigrato diciassettennea Madrid a lavorare per la compagnia dei telefoni,a vivere e interpretare con il suo gruppo punk-rock di travestiti la «movida» della Spagna appena liberata dalla dittatura di Francisco Franco. Nel primo periodo il suo cinema è selvaggio, sarcastico, tagliente, comico, esagerato, anti istituzionale, amoralistico, popolato di personaggi al limite: una Madre Superiora innamorata pazza di una cantante, Carmen Maura che vorrebbe vendere la propria verginità per 60 mila pesetas, un torero che uccide le donne con cui fa l'amore, consumatori di cocaina di ogni sesso, clero indegno. Ma l'amato regista non avrebbe toccato il cuore di tanti spettatori né vinto tanti premi internazionali se i suoi film non fossero diventati nel secondo periodo più dolci e amorosi, più affettuosi e pieni di pathos, più dolorosi. Del tutto privo di pregiudizi, sempre alla ricerca di personaggi anomali, di gusto postmodernista, Almodòvar allinea film di grande successo che mescolano commedia e melodramma: Légami!Tacchi a spilloTutto su mia madre rivela attrici fantastiche e attori come Antonio Banderas (Matador), Javier Bardem (Carne tremula), Gael Garcia Bernal (La mala educaciòn).
Piace pure il suo stile personale.
Per niente bello, di poca statura e grassoccio, seduce con i begli occhi neri, con la vivacità e l'allegria, con l'intelligenza anticonformista che rende tanto sorprendente e divertente la sua conversazione. Ma quando gli si chiede se la mutazione dei suoi film, il passaggio dal primo al secondo periodo della sua opera, possano dipendere dalla morte di sua madre avvenuta nel 1999, risponde: «Da quando è scomparsa sento di essere io in prima fila, senza nessuna protezione nei confronti della vita, della morte. E avverto la sua presenza, non fisica, certo, ma qui dentro il cuore...».
Da Lo Specchio, 16 ottobre 2004
L'ultima opera, Los abrazos rotos, in gara a Cannes, parla di un regista che non sopporta la luce. Proprio come l'autore. Che qui racconta tutte le altre cose che non sopporta. A cominciare dalle discriminazioni sessuali.
Los abrazos rotos, (Gli abbracci spezzati), il suo ultimo film in concorso al Fe stival di Cannes, è una sorta di thriller sulla personalità, in cui si parla di sdoppiamenti d'identità, traumi nascosti nel passato, trasfigurazioni nella finzione... Quando Pedro Almodóvar ne iniziò la lavorazione, disse che l'idea della storia gli era venuta in un momento nel quale soffriva di terribili emicranie.
Il film le è servito come terapia?
«Sì. Ma non è che volessi fare un film sulle emicranie. In Los abrazos rotos non appare un solo analgesico. C'è, invece, un regista che vive nell'oscurità. II personaggio nasce dall'oscurità nella quale vivevo io in quei momenti. Se ci sono tante foto mie con occhiali neri non è per ragioni di glamour ma per la fotofobia, fotofobia ed emicrania vanno insieme. E, a pensarci, è un paradosso, in quanto io lavoro proprio con la luce, circondato da mille kilowatt di luce per mesi, e di fronte a schermi luminosi. Però non per questo cambierò professione. Nonostante tutti questi inconvenienti, il momento in cui mi sento meglio è quando giro. L'ho capito soprattutto in questo film. Non utilizzo il cinema come terapia, ma ho scoperto che il momento in cui ho meno dolori di testa è quando sto girando. Nello stupendo film Il divo ho scoperto che Andreotti soffre da sempre di emicranie. Mi sono rallegrato nel constatare che questo non gli ha impedito di compiere novant'anni, sebbene forse la chiave di tanta resistenza consista nell'essere diabolici quanto lui...».
Quando pensa al giovane Pedro, colorato, folle e spudorato dell'esplosione della movida, cosa prova per lui? Era più coraggioso o più incosciente? Che cosa conserva di quella meravigliosa spudoratezza?
«Provo un'enorme invidia (che non è nostalgia) per la follia di quelle notti interminabili, e per la spudoratezza come stato naturale, frutto del bisogno di esprimersi e dell'incoscienza. Ho avuto la fortuna di essere giovane in un momento in cui la Spagna viveva un'esplosione di libertà che non avevamo mai conosciuto prima. La follia di quegli anni, dal '77 all'84, è stata la mia migliore scuola. Adesso, la celebrità mi obbliga a essere più misurato e discreto, nei miei atti e nelle mie parole, sebbene a volte mi risulti molto difficile. L'umorismo e la spontaneità li sviluppo prevalentemente in privato. Viviamo in momenti in cui tutto viene male interpretato. A ogni modo continuo ad essere abbastanza "polìticamente scorretto". E la possibile cautela che cerco di avere nella mia vita pubblica scompare quando giro. Scrivo e dirigo con l'incoscienza del cuore».
Che ricordi ha della Spagna del franchismo?
«Ricordi di oscurantismo. La paura come una densa nebbia nella quale vivi e respiri. Il silenzio. La vulnerabilità. Ricordo le zitelle del mio paese afflitte da perenni dolori di testa per la repressione sessuale dell'epoca (fine anni 50 e 60). Quelle povere donne narcotizzate da una religione, quella cattolica, crudele al pari dello stesso potere franchista. Ma quando hai vent'anni impari a vivere in qualunque circostanza. Ricordo che, nei primi anni 70, quando restavano al dittatore ancora cinque anni di vita, io giravo i miei primi film in Super 8 in mezzo alla campagna, in un luogo dove nessuno potesse vederci. E già erano film dove i personaggi erano giovani e promiscui e transitavano da un sesso all'altro.
Adesso mi rendo conto del pericolo che correvamo. Giravo i film in campagna, perché era più difficile che ci vedesse qualcuno, e approfittando della luce de sole perché non avevo luci da usare».
Tra i suoi film quali ritiene più significativi per l'evoluzione del pensiero in Spagna - e non solo - riguardo al rispetto dei diritti civili e all'apertura nei confronti della famiglia allargata?
«In tutti i miei film, inclusi i primi, la famiglia si presenta come un nucleo naturale, a volte casuale, basato sull'amore e sulla cura dei suoi membri. Già in La legge del desiderio, dell'86, due fratelli, uno transessuale e l'altro omosessuale, adottavano la figlia dell'amante del personaggio di Carmen Maura e i tre formavano un'autentica famiglia. Tutto il mio cinema promuove un tipo di vita dove la libertà e l'autonomia morale dei personaggi sono essenziali. Che siano suore, ragazze moderne, infermiere, casalinghe o travestiti: tutti e tutte sono padroni della loro vita. Però non so fino a che punto i miei film siano stati così essenziali per lo sviluppo dei diritti civili nel mio Paese. Magari avessero aiutato in qualcosa. A volte credo, che rispetto a questo tema, mi si attribuisca più importanza di quanta io ne abbia avuta. È vero che mi sono sviluppato in consonanza con il mio Paese, sono nato come cineasta con la democrazia e sono maturato con lei. Ma credo che i veri artefici dei diritti civili raggiunti negli ultimi anni siano i cittadini spagnoli».
Si è appena celebrata la giornata mondiale contro l’omofobia. Quanto pensa che iniziative come questa possano influire sull'opinione pubblica e far avanzare la cultura delle diversità?
«È difficile sapere cosa possa influire sulla pigra opinione pubblica, però è molto importante che ogni anno si ricordi ai cittadini di tutto il mondo l'obbligo di mantenere viva la diversità culturale, perché la diversità è sinonimo di vita e di ricchezza, in tutti i sensi. Perché la cultura riguarda il modo di parlare, di fare cinema, di scrivere, di vivere e di intendere la vita. È bene che, varcando una frontiera, uno trovi un paesaggio diverso da quello del proprio Paese, con persone che vivono secondo altre abitudini. Ogni forma di lotta contro l'uniformizzazione non è mai troppa. Il mondo è molto diverso e deve continuare ad esserlo. È una questione ecologica. Nessuna cultura, per piccola e rara che sia, può scomparire»
Oggi vive in un Paese tra i più vitali, aperti e liberi d'Europa. Le è mai capitato, girando il mondo, di subire o di assistere ad episodi di intolleranza?
«Quando entro negli Stati Uniti, non posso evitare di sentirmi nervoso. Ho sempre la sensazione che mi fermeranno all'Ufficio immigrazione e non mi lasceranno più andare. Non ho vissuto di persona episodi di intolleranza, ma basta leggere un giornale per capire che lì le persone non possono circolare liberamente, che a volte basta avere la barba o un colore di pelle più scuro perché ti impediscano il passaggio. E deploro il trattamento che è riservato agli immigrati in Europa, compresa la Spagna».
Oggi, da uno a dieci, quanto è pessimista o ottimista nei confronti del futuro, dell'umanità del cinema? La sua passione per il cinema è viva come sempre?
«È una domanda molto difficile. Tutto indica' 'che andiamo dal peggio al molto peggio. Però io 'insisto nell'essere ottimista, cerco di non perdere il mio vitalismo naturale, sebbene non disponga di argomentazioni per alimentarlo. Il mondo attraversa un momento molto complicato, stiamo vivendo un cambiamento d'era nel quale il futuro si presenta come qualcosa di incerto, per la prima volta non si sa verso dove andiamo. Si sono esauriti i modelli. E questo è terribile. Non voglio essere pessimista, però mi sento molto inquieto, in questo futuro incerto includo naturalmente il mio Paese. Rispetto al cinema, non è questo il suo miglior momento, però appariranno sempre capolavori in qualunque parte del mondo, in minore quantità rispetto a quaranta o cinquant'anni fa, ma il cinema continua a essere vivo e continuerà a sorprenderci e a emozionarci. E la passione che sento per il cinema, come regista e come spettatore, è la stessa di quando ho iniziato. L'unica differenza è che adesso ne sono più consapevole. Di fatto, il mio ultimo film Los abrazos rotos è, tra le altre cose, la mia dichiarazione d'amore al cinema. Il cambiamento epocale del quale parlavo metterà fine alle sale cinematografiche a favore degli schermi domestici. Ma finché resterà aperta anche una sola sala cinematografica, continuerò ad andare a vedere i film davanti a schermi che siano molto più grandi di me».
Da Il Venerdì di Repubblica, 22 maggio 2009
Appassionato, disinibito, ironico e grande provocatore, è il cineasta spagnolo del dopo Buñuel più famoso al mondo. Autodidatta, nato nella regione povera de La Mancha, all'età di otto anni emigra con la famiglia in Estremadura. Studia, con grandi sforzi economici, fino a superare l'esame di ammissione all'Università Salesiana. Ma la rigidità dell'esperienza di questi anni lo allontana dalla Chiesa - e dallo studio - e lo avvicina al suo sogno: il cinema. Sceglie di rischiare e parte per Madrid. Dove, per sopravvivere, fa l'ambulante a El Rastro, il mercato delle pulci della capitale spagnola.
Siamo in pieno franchismo: la dittatura chiude le scuole di cinematografia. E Pedro comincia a lavorare come impiegato per la società spagnola di telefoni, la Telefónica, dove rimane per dodici anni. Con i primi soldi sicuri, acquista la sua prima cinepresa Super otto. Dal 1972 al 1978 si dedica alla produzione di cortometraggi per sé e i suoi amici. Diviene uno dei maggiori esponenti della Movida, il movimento culturale pop spagnolo di fine anni Settanta.
Provocante, esaltatore dei sensi e delle passioni più sfrenate, racconta la vita. Almodóvar ne mette a nudo, con il calore e l'ironia della sua iberica mediterraneità, i suoi lati perversi, le sue pulsioni indicibili, tutte le nevrosi e le debolezze, i peccati e le trasgressioni. Diventa così il ritrattista più graffiante e istintivo del postmoderno. Gli anni della movida corrispondono alla sua formazione. La mattina, a contatto con la classe borghese che avrebbe immortalato con tutti i suoi vizi; il pomeriggio con la Compagnia Los Goliardos a girare, a provare nuove tecniche. Ma soprattutto a scrivere: butta giù storie, quelle che gli si incrociano davanti, mentre mangia o cammina, o stringe la mano a qualche impertinente ricco borghese. E i suoi racconti cominciano a vedere pubblicazione. Come se non fosse sufficiente, mette su una rock band come cantante, Almodóvar y McNamara.
Arriva il 1980, con il ritorno della democrazia in Spagna, Pedro Almodóvar dirige il suo primo, vero film: Pepi, Lucy, Boom… e le ragazze del mucchio. Comincia così la sua ricca carriera internazionale, fatta di pellicole di grande successo: da Labirinto di passioni, 1982, con una delle sue interpreti preferite Cecilia Roth, a Donne sull'orlo di una crisi di nervi (1988) con uno scatenato Antonio Banderas; da Légami (1990) a Tacchi a Spillo dell'anno successivo, con un trasgressivo e imperdibile Miguel Bosè, da Carne Tremula del 1997 con una sensuale Francesca Neri, fino al pluripremiato Tutto su mia madre del 1999, che si aggiudica il César, nella Categoria Miglior Film Straniero, l'equivalente Golden Globe e l'Oscar. Nel 2002 esce nelle sale il suo nuovo film, Parla con lei.
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