I vent'anni che hanno cambiato la vita delle donne sono lontani. I Sessanta. I Settanta. Quando alla conferenza stampa di presentazione del suo film «Vogliamo anche le rose», Alina Marazzi viene interrogata circa la possibilità di farne un altro, sul ventennio successivo, la regista tace.
Sembra non poterlo dire, ma sembra che lo sappia. Che cosa ci hanno lasciato gli anni Ottanta e Novanta, oltre che il Drive In e la coscia televisiva? La domanda viene naturale, soprattutto dopo aver scrutato per un'ora e mezza, in profondità, il passato prossimo femminile italiano attraverso i diari privati di Anita, Teresa e Valentina. Tre ragazze che hanno vissuto il '68, in età diverse e città diverse, e che la regista milanese rimescola in un bellissimo film. Grazie alle voci di Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti, a una ricerca di archivio durata un anno, alla supervisione, ai testi della scrittrice Silvia Ballestra e al sapiente montaggio di Ilaria Fraioli.
I diari. Forse le giovani di oggi sono meno spaventate di Anita? Che scrive a Milano, nel 1967: «Paura di compiere 19 anni, di frequentare l'università. Mi ribello all'idea del vestito bianco, dei parenti, del matrimonio, del contratto legale, della cerimonia in chiesa. Come si fa a vivere fuori dalle convenzioni sociali?».
Valentina, nella Roma del 1979: «Bisogna trovare un modello da seguire. Ci guardiamo intorno e vediamo che non ce ne sono. Alcune prendono i soldi dal marito. Qualche altra ha avuto sempre uomini importanti. E ci sono forse le vere emancipate che passano da un uomo all'altro, ma con caratteristiche di stabilità».
E Teresa, a Bari nel 1975, si trova di fronte al dilemma dell'aborto clandestino (la legge fu approvata nel 1978, trent'anni fa). Un tema che si pensava superato, e che invece, tragicamente, troviamo nelle cronache dei quotidiani, tutt'oggi. Scrive Teresa: «Sono due mesi che non scrivo. Ho provato tante volte ad aprire questa agenda. Mi mancava il coraggio di confidare quello che temevo mi stesse accadendo. Adesso sembra solo una storia da raccontare. La storia di un aborto. La storia del mio aborto. Piango di nuovo, agenda rossa. Ho sofferto troppo e non credo di aver meritato tanta sofferenza. Eppure era così normale per me, prima, parlare di aborto. La maternità è una libera scelta. Mi ero sempre sentita lontana da quella scelta. In verità non sono sicura di aver scelto. Temo di non aver avuto scelta».
Il privato, in concomitanza con la festa dell'8 marzo, si fa pubblico. A un secolo dalla triste vicenda che segnò la morte di 129 operaie all'interno di una fabbrica di New York, quando festeggiare con le mimose per alcune sembra scontato da dimenticarselo quasi, Alina Marazzi presenta nei cinema (e anche alla tivù, il prossimo autunno, sul satellite con Cult) «Vogliamo anche le rose». Titolo che riprende il celebre slogan «Vogliamo il pane, ma anche le rose», con cui le operaie tessili del Massachussets, a inizio Novecento, davano per acquisito il pane, e chiedevano di più. Non circenses (giochi da circo), ma poesia.
E poesia è la pellicola della Marazzi. Che dall'individuale passa al collettivo, senza colori – se non quelli del passato – e ideologie, ma con l'onestà intellettuale di una donna che esplora il nostro presente globale, contraddittorio e conflittuale, con l'intenzione di offrire uno spunto di riflessione su temi ancora parzialmente irrisolti, o palesemente rimessi in discussione.
«Dovremmo discutere di procreazione assistita e di diritti delle coppie di fatto –dice Alina –e invece siamo ancora qui, a parlare di aborto. Forse abbiamo perso l'abitudine al dialogo tra noi. Forse siamo tutte più chiuse nelle esigenze quotidiane, lasciamo i nostri figli a badanti che non ci preoccupiamo nemmeno di conoscere fino in fondo. Ragazze immigrate da Paesi che pronunciamo male e che sono le italiane di 40 o 50 anni fa. Io sono ottimista, e guardo avanti».
Una ricerca del passato che serve a tutti, per tracciare una linea dello stato dell'arte. «Io cerco indizi» dice Alina Marazzi. Anche una celebre poetessa russa, prima di lei, tra il 1917 e 1919 scrisse un diario moscovita dal titolo «Indizi Terrestri». E nel 1924 una poesia, che faceva così: «Come spostando pietre: geme ogni giuntura! Riconosco l'amore dal dolore lungo tutto il corpo».
Da Il Sole-24 Ore, 6 Marzo 2008