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Rassegna stampa di Vittorio Gassman

Vittorio Gassman è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, musicista, è nato il 1 settembre 1922 a Genova (Italia) ed è morto il 29 giugno 2000 all'età di 77 anni a Roma (Italia).

GIANCARLO ZAPPOLI
MYmovies.it

"Mi scusi se la mia ignoranza non è pari alla sua". La battuta del tutto ingenua del soldato Busacca de La Grande Guerra non verrebbe mai pronunciata nella realtà da Gassman Vittorio se non per irridere l'interlocutore. L'uomo è (e soprattutto era) fatto così: ampiamente (forse fin troppo) consapevole delle proprie doti e naturalmente portato a stare in proscenio. Tutto ciò funziona a teatro ma al cinema può portare a pesanti rischi di saturazione. Per Vittorio non fu così. Profilo greco e fisico aitante gli consentono di rappresentare sullo schermo una lunga serie di villain sciupafemmine (uno per tutti quello di Riso amaro di De Santis) prima di essere 'scoperto' da Monicelli nella sua veste comica. Il pugile di basso livello de I soliti ignoti gli apre una strada che troverà i suoi vertici nella commedia all'italiana degli anni Sessanta. Un ruolo su tutti: Bruno Cortona de Il sorpasso di Dino Risi che gli offrirà poi un altro ruolo impervio in Profumo di donna. Gassman deve molto ai due registi citati e a Ettore Scola che, ormai raggiunta la matura età, gli offre l'occasione di indagare su se stesso oltre che sui personaggi che interpreta in film come C'eravamo tanto amati, La terrazza. La famiglia. Gassman sembra aver lasciato definitivamente alle spalle l'istrionismo un po' cialtronesco di Brancaleone in favore di una più sofferta macerazione interiore. Non è un male.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Qualche settimana fa, in farmacia a piazza Barberini a Roma, Vittorio Gassman comprava alcune delle sue pillole dell'infelicità. L'attore grande e unico de Il sorpasso, de La grande guerra, de L'Armata Brancaleone e di C'eravamo tanto amati non si riconosceva. La faccia seminascosta dalla barba, alterata da una magrezza morbosa, disidratata, pareva di carta; le gambe (portava i jeans, a 78 anni) sembravano stecchini. Eppure, mentre per caso si parlava di Riso amaro, accennò una mossa, tra il passo di danza e la piroetta atletica, del personaggio di quel film, un lestofante arrogante e violento con il cappello di traverso: e improvvisamente fu di nuovo lui com'era mezzo secolo fa, con la sua bellezza di cattivo e la sua (diceva) allegria grossolana, un po' teutonica. Suo padre era austriaco e sua madre fiorentina (la più tedesca dei due), ma quando Gassman andò a lavorare negli Stati Uniti, un anno dopo aver sposato nel 1952 la terribile Shelley Winters, alla Metro Goldwyn Mayer personaggi italiani non gliene affidavano mai: in Sombrero era un messicano, certo Alejandro Castillo condannato da un tumore; ne Il muro di vetro era un ungherese clandestino a New York; in Rhapsody era un apolide virtuoso del violino innamorato di Liz Taylor; e in Mambo di Robert Rossen era sì un italiano, ma un mezzo ruffiano. A rivederli adesso quei film sono infinitamente divertenti per il kitsch melodrammatico e lo stile Anni Cinquanta: ma a Vittorio Gassman (sempre con occhi troppo neri e abiti troppo rigati, sempre con capelli lustri arricciolati, un nuovo Caesar Romero seduttore e/o imbroglione latino) servirono quasi a nulla. Al cinema non sembrava adatto: la recitazione altisonante risultava al cinema troppo invadente, i lineamenti classici e forti risultavano sullo schermo troppo importanti, l'aria sicura di sé fino alla presunzione risultava antipatica, l'altezza e il corpo atletico da ex nazionale di pallacanestro risultavano umilianti per gli altri attori. La svolta avvenne nel 1958: Mario Monicelli gli affidò ne I soliti ignoti la sua prima parte comica, un ladro inetto, ex pugile, balbuziente, e fu l'inizio di una serie di personaggi indimenticati: lo sbruffone de Il sorpasso di Dino Risi, il guerriero straccione de L'Armata Brancaleone di Monicelli, i borghesi ipocriti, perbenisti e dolorosi di Scola ne La terrazza, ne La famiglia o ne La cena, i proletari trucidi de I mostri dove la sua bella faccia veniva spesso resa grottesca, rovinata. I soliti ignoti era stato quasi un caso o uno scherzo, ma quando Gassman lavorò con Alberto Sordi ne La grande guerra di Monicelli capì accanto a lui quale affetto susciti nella gente la comicità, e come nel cinema italiano il comico sia sempre l'attore più popolare, più amato, più pagato. Restando in teatro un grande tragico, al cinema fu comico o almeno grottesco: sprigionava da lui un piccolo disagio, un'impressione di insincerità, il sospetto che mentre Sordi si identificava coi i personaggi Gassman si limitava a recitarli benissimo. Forse non ci credeva, ma era così bravo: il più gran Cialtrone del nostro cinema. Certi suoi tipi di industriale vorace e spietato capace di buttare a mare i vecchi genitori, la moglie e i figli, oppure di avvocato quattrinaio e amorale, di costruttore infame, di medico indecente, di mattatore egocentrico, di amante abietto, rappresentano all'estremo la borghesia e la pessima variante italiana dell'individualismo negli Anni Sessanta e nei decenni successivi fino a oggi: la cialtroneria brutale che diventa inquinante per la collettività, che si muta in una malattia sociale. Recitava un Cialtrone dopo l'altro. Recitava nella vita la parte del patriarca circondato di figli e di ex mogli. Recitava in teatro a Parigi o nelle città americane, in francese o in inglese, da attore cosmopolita quale era. Recitava sempre un poco sopra le righe, con quell'energia e quella disperazione rintracciabili ne Lo zio indegno di Franco Brusati o in Tolgo il disturbo di Dino Risi, bei libri: l'autobiografia Un grande avvenire dietro le spalle (1981), il romanzo Memorie del sottosuolo (1990), i versi Vocalizzi (1988), il dialogo con Giorgio Soavi Lettere d'amore sulla bellezza (1996). La depressione, malattia impossibile, lo costringeva a lunghe assenze dal lavoro. Provava insofferenza per se stesso, “l'attore che consuma una perpetua dissociazione dalla sua essenza”. Si autocriticava scrivendo: “Tu non ti guardi: ti ammiri o ti fai pena”. Odiava la vecchiaia con tutte le sue mortificazioni. Era stato così bello, e non riusciva ad accettare il proprio aspetto fisico di settantenne. Neppure la poesia gli piaceva più: “I miei versi/sono sempre più corti/perché più breve/é l'ansito dei miei polmoni insecchiti/della mia vita strinata”.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

"Non si recita per guadagnare il pane Si recita per mentire, per smentirsi, per essere ciò che non si è ". Così la pensa Vittorio Gassman, o meglio l’alter ego Edmund Kean, protagonista del suo primo film come regista (Kean, genio e sregolatezza, 1956). Lo ricorda Dante Cappelletti in Vittorio Gassman. Solitudine di un mattatore (Editalia 1988, L. 24.000). A causa della propensione di ogni attore alla menzogna, il cinema è pericoloso per chi fa quel mestiere: alla lunga la cinepresa disvela l’anima. "Secondo me - confida Gassman - il cinema è una radiografia del carattere (...) Il teatro è un arte del mascheramento, il cinema è una tecnica di rivelazione. (...) è come quando ci si guarda allo specchio, e soprattutto in età avanzata si prova un senso di imbarazzo, di disagio". Eppure, visto allo specchio del grande schermo, l’attore Gassman non lascia scorgere nulla per cui debba sentirsi a disagio. Nei suoi film, da Riso amaro a I soliti ignoti, da Il sorpasso ai due Brancaleone, c’è la biografia di un uomo - come nota Cappelletti - ma anche, e forse soprattutto, la biografia di una nazione. Insieme con Totò e con Alberto Sordi, ma in modo molto diverso, Gassman è tra i pochissimi attori italiani di cinema che siano insieme grandi e popolari. Sordi è una maschera prodigiosa, la somma affascinante-repellente dei nostri difetti meschini e del nostro narcisismo mammone. Totò è molto più che un attore: è la manifestazione di una forza vitale originaria, naturale, che la grande cultura dello spettacolo ha solo affinato. Gassman, invece, è profondamente "attore". In lui il mestiere, quello vero, domina sopra ogni altra cosa: sopra un indubbio vitalismo di fondo e anche sopra la maschera o le maschere che, film dopo film, il cinema gli ha prestato. Ed è stato certo il mestiere a consentirgli di uscire indenne da quello che, da noi, è l’inizio quasi certo dell’involgarimento artistico: il successo televisivo (Il mattatore, da cui nel ‘59 Dino Risi ha tratto un film). Gassman non ne è rimasto prigioniero, non ha ripetuto se stesso all’infinito, come accade alle effimere stelle della tv, caratteristi mediocri che passano al cinema con la presunzione d’essere protagonisti. Gigione e spaccamontagne nell’immaginario collettivo di quegli anni, è stato invece professionista geniale nella realtà, così geniale da identificarsi quasi con il periodo migliore del cinema italiano. Si badi: del "cinema" come tale, cioé di consumo popolare, non del "cinema d’autore", che è cosa diversa, seppur grandissima: questo non ha sempre bisogno di grandi attori, quello invece sì, un bisogno vitale. Popolare, certo, fu Riso amaro (1949), in cui Gassman riveste i panni di un bel tenebroso, mascalzone e ladro. Del neorealismo più vero quel film ha ormai poco. Il suo è un iperrealismo o, se si vuole, un irrealismo programmatico. Giuseppe De Santis vuole fare non più cinema "sul" popolo, come il neorealismo appunto, ma addirittura "del" popolo, con il suo epos ingenuo. L’Italia, appena uscita dall’incubo, tenta anche così di darsi un’identità, mescolando miti polulistici ed erotismo. Ma è con I soliti ignoti (1958) che Gassman diventa davvero popolare. Nella storia del pugile-materasso Peppe (lo stesso Gassman), del fotografo Tiberio, di Mario, di Capannelle e di Ferribotte, il nostro cinema porta a perfezione la commedia all’italiana, l’umana comicità di una società ancora immersa nei ritmi paciosi della tradizione. Su tutti, anche su Gassman, giganteggia Totò, maestro di ladrerie nella finzione e di sublime arte nella realtà. Commedia, paciosità, umana comicità: nel ‘62 Gassman e il regista Dino Risi le capovolgono nel malessere del boom, nella sindrome da improvvisa ricchezza di Il sorpasso. In quel film l’Italia si scopre radicalmente mutata, non più contadina, ormai avviata sulla strada di una crescita economica impetuosa. Il film di Risi esprime tutta la cattiva coscienza che si accompagna al cambiamento: vede solo la fine dei valori tradizionali e non il profilarsi di altri, necessari ma ancora estranei. Il suo riso diventa quindi davvero "amaro", adesso che non ci sono nemmeno più i miti populistici e ingenui del dopoguerra a indicare una direzione. Gassman dà di tutto questo un’interpretazione perfetta, pescando nel gigionismo delle sue maschere precedenti e intridendolo d’angoscia. E infine, nel ‘67 e nel ‘71, il miracolo cinematografico di Brancaleone. Prima L’armata Brancaleone e poi Brancaleone alle crociate spuntano come per incanto nel panorama culturale di una nazione che già disimpara a far cinema, perdendosi nelle volgarità culturali del contenutismo e dell’"impegno" senza poesia né genio. E invece il regista Mario Monicelli, gli sceneggiatori Age e Scarpelli, e lui, Gassman, realizzano due capolavori di leggerezza, divertimento, ricerca linguistica e recitazione che restano ineguagliati. E, ancora, in tanti altri film Gassman ha giocato quel suo gioco di mascheramento e smascheramento: Anna (Alberto Lattuada, 1949), La grande guerra (Monicelli, 1959), I mostri (Risi, 1963), C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974), Il deserto dei Tartari (Valerio Zurlini, 1976). Ognuno basterebbe forse alla fortuna di un attore, ma per lui - mattatore solitario e fortunato - non sono che opere minori.

MARIO SOLDATI

Se permettete parliamo di Gassman. È ora, mi pare. Il destino artistico, oppure, se vogliamo usare anche noi il vocabolario degli specialisti, la linea di sviluppo di questo fortissimo nostro attore merita, secondo me, ogni attenzione: eh sì, a tutta prima sembra curiosa, strana, irrazionale: rivela, invece, la propria logica appena la si studi un po' a fondo, e purtroppo finisce per simboleggiare lo stato d'animo di molti italiani d'oggi, comprendendo tra i molti anche qualche notissimo artista, regista, letterato, scrittore...
Esistono due grandi categorie di attori. Quelli che si trasformano di volta in volta, componendo il loro personaggio. E quelli che, al contrario, sono sempre loro stessi. Metterei nella seconda categoria Jules Berry, Gary Cooper, Nazzari, Ferzetti. Metterei nella prima Guinness, Mastroianni, e Gassman. Non conosco gli esordi di Guinness. Soltanto un dramma, in cui lo vidi, al Savoy Theatre, una quindicina di anni fa: tardi, quindi, per la sua carriera: ed era un dramma serissimo, ma il ruolo di sir Alee tutto parlato, accuratamente, e, a detta di chi se ne intendeva, impeccabilmente, con accento scozzese. Assistevamo, dunque, già all'inizio delle sue famose «compositions»: in italiano diremmo: caratterizzazioni. E resta un fatto che, in principio, Guinness fu un attore classico shakespeariano. Anche Mastroianni fu, per molto tempo, un attore classico, anzi un giovane attore classico. Soltanto col Divorzio cominciò fortemente a «caratterizzare».
Questa evoluzione è normale, normalissima: segue l'andamento della stessa natura: i caratteri si precisano, con tutte le loro manifestazioni più individuate e generalmente comiche, o umoristiche, soltanto con l'età. A meno, quindi, di un fisico specialissimo (come fu il caso, anni or sono, del povero Céseri: e recentemente del Buazzelli), i caratteristi non sono mai giovani. In altre parole, e per affidarsi ancora alle sacrosante categorie del vecchio teatro, gli «attori giovani», invecchiando, diventano «primi attori» (se non hanno l'autorità: «generici primari»), oppure «caratteristi». Come vedete, è sempre la stessa divisione che dicevo prima.

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Moriva il 29 giugno di 20 anni fa un gigante inarrivabile del cinema italiano.
Il film di Dino Risi avrebbe forse potuto concludersi diversamente, senza perdere la sua magia. Ecco come.
I palinsesti televisivi estivi hanno fatto emergere una filmografia nascosta del grande attore.
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