Francesca Bertini (Elena Seracìni Vitièllo) è un'attrice italiana, produttrice, è nata il 11 aprile 1892 a Firenze (Italia) ed è morta il 13 ottobre 1985 all'età di 93 anni a Roma (Italia).
C’era un tempo in cui gli uffici postali di Los Angeles avevano meno lavoro di oggi. Molte delle lettere che attualmente vi arrivano, erano indirizzate, vent’anni or sono, alla signorina Francesca Bertini, Roma. Venivano da tutto il mondo, persino dall’Estremo Oriente, e Francesca Bertini non si degnava nemmeno di aprirle. Nel cinema da poco nato, le stelle si sentivano in obbligo di conservare il sussiego delle grandi attrici di prosa, del tempo in cui i fedeli staccavano i cavalli dal coupé. La piccola Francesca ignorava i segreti degli uffici stampa sistematici e taylorizzati: il tributo d’amore del pubblico non si convertiva ancora per lei in una tirannide. E tuttavia ella riuscì a disegnare, con sensazionale anticipo sui tempi, il destino di una stella, di tutte le stelle.
Vogliamo raccontare la sua storia ai giovani che non sono arrivati in tempo a vederla; e rievocarla a coloro che, in Nelly la gigolette, hanno per primi sperimentato la corrente di amore collettivo che unisce le platee alle grandi apparizioni dello schermo.
Non c’è vero successo senza fondamento di intelligenza. Proprio negli anni in cui il cinema era tipicamente la parata esibizionistica dei senza-cervello, Francesca Bertini dimostrava in quell’arte, che non era stata ancora attribuita ad una decima musa, la costruzione di un “successo” a base di verità e d’intelligenza; dimostrava una vocazione infallibile e precisa; dimostrava che sempre, il quid comunemente chiamato fortuna, nasce dall’incontro di un talento con un destino.
Nata per caso a Firenze, questa napoletanissima ragazza trascorse a Napoli l’infanzia, figlia adottiva di un certo Vitiello. Si chiamava Elena, prima che una inspiegabile fantasia le suggerisse di ribattezzarsi Francesca. Si chiamava ancora Elena quando la madre, donna di teatro, la introdusse in una compagnia dialettale napoletana. Che aveva potuto vedere la piccola Elena coi suoi grandi, sgranati occhi di bimba? Certamente una vita pittoresca e gaia, familiare e tragica, ch’era stata insieme fonte d’ispirazione di una già illustre letteratura dialettale (poesia e teatro), ed uno dei principali spunti, anche polemici, del movimento verista. Quello che c’era in lei di istinto assorbiva aspetti, atteggiamenti, gesti da trasmettere all’attrice futura.
Ad esplorare la crisalide in questa sua prima stagione, s’intravvede una specie di dramma. Una oscura vocazione teatrale, una decisione d’arrivare covata a denti stretti, una insofferenza della vita grama contraddetta dalla impossibilità di diventare mai attrice: Elena Vitiello aveva una sgradevole voce di gola. Se non fosse stata destinata a diventare Francesca Bertini, forse avrebbe incontrato il cinema o troppo presto o troppo tardi; in ogni caso, non a quel momento giusto, fatale, che le permise di convertire le proprie insufficienze di commediante, nelle virtù di un tipo ancora inedito di attrice.
Quando a Roma, per un normale desiderio di agi, per una specie di volontà di potenza che mascherava (forse anche a lei medesima) la volontà del successo, ella cercò delle particine di prima attrice giovane alla Pathé di Falena, che cosa si nascondeva sotto il suo gesto forse timido, forse eccessivo di debuttante? Senza dubbio la prepotenza della diva cui erano commessi la missione di portare il cinema italiano ai sommi fastigi, e il triste incarico di iniziarne la crisi. Una aura c’era già, senza dubbio, intorno a lei, quella specie di vento di scandalo che pare inseparabile da tutti i grandi trionfi scenici: scritturata da un produttore che stava fondando una nuova casa editrice, venne provvisoriamente chiesta in prestito dal proprietario della Caesar (oh! gran bontà dei produttori antichi!) il quale, naturalmente, si guardò bene dal restituirla. Di qui un processo lungo e clamoroso. Fu a questo punto che, fiancheggiata da un produttore, ella sentì la ineluttabilità della propria ascesa, la possibilità di tutte le ambizioni. I successi si seguivano l’un l’altro: accanto a Collo, a Serena e a Ghione, ella passava da Don Pietro Caruso a Sangue bleu e ad Assunta Spina, e nell’interpretare quest’ultima era assistita nientemeno che da Salvatore Di Giacomo. Quel personaggio di donna sfregiata e appassionata, il modo di mettere lo scialle, l’ambiente e il panorama napoletano; poi lo strano, quasi indecifrabile prestigio d’una figura gracile, dal capo leggermente sproporzionato, dai capelli proverbialmente corvini e dagli occhi pieni di lampi, le fecero presto varcare i confini come tipo d’una bellezza meridionale e popolaresca.
Chi fermava più questa attrice? Nelly la gigolette, Malia, Processo Clemenceau: tutto il mondo reclamava i film della Bertini e il produttore ideò di associare il nome magnetico della stella a quello dei più divulgati autori scenici. La “grande produzione teatrale”, come dicevano i manifesti di allora: Signora dalle camelie, Tosca, Odette, Fedora.
La piccola borghese non poteva certo sentire una precisa differenza tra la diva e la donna padrona della vita. Non lavorava, né esercitava un’arte: regnava. Così nel suo teatro, come nella vita. Era lei che imponeva la scelta dei soggetti e degli attori; che faceva e sovvertiva gli ordini del giorno; che andava in sala di proiezione a sforbiciare e mutilare i pezzi girati il giorno innanzi, quando non le paressero abbastanza lusinghieri. Il vestito nuovo, portatole dalla sarta, doveva ineluttabilmente essere girato nella scena del giorno successivo, e tanto peggio per la scena se non l’avesse comportato: si modificava il soggetto. Ma a metà del pomeriggio veniva il five o’ clock delle cinque (sic), e “donna” Francesca Bertini, che era una signora, anzi una regina, doveva andare nei grandi alberghi a prendere il thè con le dame e tra le dame. La regola non pativa eccezione: non c’era programma di lavorazione che tenesse. Inflessibile anche con se stessa, aveva intuito quanto costi la gloria e il successo, e rinunciava all’amore di corteggiatori anche illustri, per conservarsi, chi sa, magari ad un vero blasone.
I film della Bertini si vendevano “a scatola chiusa”. E funzionavano da capi gruppo: cioè, nel noleggio, trascinavano con sé, come taglia obbligatoria, anche la produzione minore e di scarto. Il fenomeno di infatuazione industriale, spettacolistica e mondana stava diventando, nel suo campo, gigantesco. Perfino l’arbitra Parigi di quegli anni si era commossa: lanciava cappelli alla Bertini, mantelli alla Bertini, pettinature alla Bertini. Causa od effetto, la Bertini era amata nella donna passionale, assoluta, straziante allora di moda.
Pure, questa donna dai mille trionfi nutriva ancora, inesaudito, un piccolo sogno borghese: avere un villino suo, di sua proprietà, in uno di quei quartieri eleganti della capitale per cui erano passati i cavalli di Andrea Sperelli e le carrozze di Elena Muti. Per soddisfarla, il produttore lanciò un titolo: I sette peccati capitali. Si trattava di mostrare la Bertini in una corona di sette film, attraverso la gamma di tutte le passioni. Sul puro annuncio le vendite fecero ressa. Si doveva produrre a tempo di record e la Bertini non venne meno. Ebbe, finalmente, il villino: nell’anticamera due solenni leggii del Rinascimento accoglievano il visitatore con un Dante ed un Ariosto solennemente squadernati. Ma venne anche il primo fiasco: molti degli acquirenti si astennero perfino dal proiettare alcuni degli episodi, pur comprati e pagati.
La fuga nella malattia si conosceva anche prima della psicanalisi. Davanti alla clamorosa smentita, che la coglieva a tradimento, alla Bertini non rimaneva che la nevrastenia. Qui veramente la curva della sua vita si inflette, si fa più morbida. In una stazione di cura, la grande passionale dello schermo, diventò finalmente la protagonista della propria vita. L’amore: la dominatrice diventa dominata. Per una fatale coincidenza, questa conversione si produrrà anche nel suo modo di essere attrice.
Un giorno, durante quel periodo di riposo, le accadde di passare accanto ad un teatro della Caesar, dove un regista venuto da Torino, il Roberti, stava girando i primi film di Vera Vergani, con metodi ancora ignoti alla Bertini. Torino in quegli anni voleva dire, cinematograficamente, soprattutto la Itala Film, dove il Pastrone aveva introdotto, fin dal 1914 e da Cabiria, i carrelli, la luce artificiale per realizzare effetti atmosferici, un logico e funzionale uso dei primi piani. Voleva dire altresì un più serrato ed organico sistema di lavorazione. Trasportate di punto in bianco a Roma, quelle novità presentavano anche certi aspetti pittoreschi di improvvisazione. Per esempio, i “padelloni” per ottenere gli “effetti”, venivano rimediati con degli imbuti da vino, in fondo ai quali si sistemavano alla meglio due carboni a incandescenza. La Bertini si interessò a questa lavorazione e chiese di sperimentare il nuovo regista.
Si girò Anima allegra dei fratelli Quintero. Per la prima posa della signorina Bertini il regista aveva messo all’ordine del giorno: vestito da viaggio per lungo percorso in auto scoperta. Di primo mattino il Roberti stava lavorando con altri attori, quando ad un tratto si sentì una tromba di automobile. Come per incanto, tutto il personale scomparve dal teatro. In massa era accorso al cancello: dove, schierato su due ali, inchinava l’entrata della signorina Bertini. La quale giungeva sotto l’ombra di un larghissimo cappello, straordinariamente inopportuno per quella lunga corsa in auto scoperta, prevista dalla lavorazione. Il regista si rifiutò di girare e la scena fu rinviata all’indomani. Era la prima volta che si osava tanto con Francesca Bertini.
La disciplina nuova ottenne una ripresa di successo. Disciplina, s’intende, fino ad un certo punto: le esigenze della Bertini, per esempio, in fatto di vesti, non erano mutate; per ogni scena ella pretendeva di indossare un abito nuovo; e, una volta che si trovò ad avere esaurito il guardaroba, rapidamente, con gioia fanciullesca, prese un pezzo di seta ed alcuni lembi di pelliccia e se ne fece una specie di veste puntata con gli spilli; ma così posticcia, così difficile a portarsi, che l’operatore fu costretto alle più incredibili acrobazie, affinché la vanità della diva non si convertisse in un buffo disastro.
Oramai la sua esperienza scenica aveva raggiunto il massimo di maturità e di scaltrezza: abilissima ed esclusiva, non ostante ogni sorveglianza del regista, sapeva sempre campeggiare, prendersi tutta la luce del quadro a scapito dei compagni. Malgrado le pose statuarie in cui aveva cristallizzato il suo gioco, rendendolo pesante e convenzionale nelle scene più statiche, quando venivano i momenti di rapida azione, sapeva scattare con quella esuberanza meridionale, che la grande scuola scenica di Adelina Magnetti le aveva insegnato a far valere. Tutto riprendeva vita.
Per questo, ella era unica, pur tra la corona d’altre stelle che venivano via via accendendosele d’intorno: Lyda Borelli, Diana Karenne, Soave Gallone. La Bertini ignorava rivali e compagne. Pensava e dichiarava che nessuno avrebbe potuto spodestarla. Fu l’amore, invece, che le costò il trono. La popolana dal gran cuore (o la donna che vedeva finalmente coronato il suo snobismo) vinse anche l’ambizione esclusiva dell’artista. Col 1919 verme il grande contratto, forse il primo del mondo di questa entità: due milioni per otto film da girarsi in un anno. Ma il criterio di produzione era ormai mutato. La Bertini si serviva, ormai, delle sue vecchie qualità dispotiche, solo per seguire il suo amore. Se doveva passare un mese al mare col suo fidanzato, le s’improvvisava un qualunque soggettino di spiaggia, tanto per fare un film di più, per avere ancora una Bertini. Mai l’attrice di qualche anno prima avrebbe risposto, come ella faceva in quei giorni: – Per me la cinematografia è morta! Io entro di là, (e indicava una delle porte del teatro), esco da quell’altra parte, ed il film è fatto. E quando il film è fatto, non cerco altro –.
Viva e caustica come sempre, guardava ormai dall’alto il mondo della sua arte. Un giorno Febo Mari, che girava un suo film, doveva - ottenere da lei una scena di pianto. Non riuscendovi con alcun altro mezzo, tentò con l’esempio personale: appartatosi in un angolo, si concentrò per un minuto, dopo di che grossi lagrimoni gocciavano sul pavimento. Poi, rivoltosi all’insensibile attrice: – Vede come si fa? E lei che prende due milioni non sa nemmeno piangere? – E la Bertini ai compagni: – Poveretto! piange perché i due milioni, lui, non li guadagnerà mai! –Nell’agosto del 1921 si dette l’ultimo giro di manovella alla Fanciulla di Amalfi. Nel settembre ella sposò. Aveva quattro milioni liquidi e diventava contessa. Nella magnifica villa presso Firenze, comprata per la nuova vita, finì il romanzo della grande Bertini.
Da Cinema, 25 Dicembre 1936
Lo status di «diva» per antonomasia del cinema italiano, il prototipo di un genere di donna che ella seppe non solo inventare, ma anche far resistere al tempo, ben al di là della sua carriera cinematografica iniziatasi e conclusasi nel breve arco di una decina d'anni, con qualche sporadica recidiva.
Questa lunghissima durata della sua notorietà, dai primi anni Dieci fino ai giorni nostri, rende il suo caso del tutto eccezionale, anche perché non è certo riferibile al solo spessore artistico e umano delle sue interpretazioni, non tali di per sé da spiegare il fenomeno. Il merito della Bertini è stato di saper gestire per tutta la sua lunga vita il proprio personaggio e la propria immagine pubblica con la stessa intelligenza, accortezza e ferrea determinazione che l'avevano portata a regnare nel firmamento cinematografico del proprio tempo, facendosi interprete attenta e sensibile agli umori ed al gusto della società italiana intorno alla prima guerra mondiale.
Nata da una famiglia della media borghesia, Francesca aveva cominciato a far pratica in teatro a Napoli; diciottenne, partecipò da comparsa alle prime rappresentazioni dell'Assunta Spina, la commedia che Salvatore Di Giacomo aveva scritto per la celebre attrice napoletana Adelina Magnetti. Qui viene notata dai dirigenti della Film d'Arte, la succursale italiana della francese Pathé e nel 1910, dopo aver impersonato una seducente schiava in Salomé, passò immediatamente a protagonista assoluta di una serie di film dedicati ad eroine femminili, come le scespiriane Giulietta e Cordelia, Francesca da Rimini, Isotta, Bianca Capello e altre. L'esperienza alla Film d'Arte fu importante per la neo-attrice, la quale poté ben presto aggiungere alle non comuni doti fisiche (una figura asciutta e ben proporzionata, un volto mediterraneo dai lineamenti marcati, incorniciato da lunghi capelli neri e impreziosito da due splendidi occhi bruni), e ad un temperamento in grado di imporsi sul set come sullo schermo, anche una professionalità ed un mestiere rapidamente acquisiti nella pratica accanto a colleghi ben più sperimentati di lei.
La Bertini fiutò immediatamente la nuova direzione del vento quando le Case cinematografiche decisero di allungare il metraggio dei film; e poiché la Film d'Arte continuava ad insistere nella formula ormai invecchiata delle due bobine, l'attrice passò alla Celio, dove trovò lo spazio di cui aveva bisogno per saggiare le proprie forze nel dramma moderno e nella nuova dimensione del lungometraggio. Dopo qualche prova minore, Francesca si calò in un'esperienza decisamente nuova e controcorrente: in L’Histoire d'un Pierrot (1913) non esitò ad affrontare l'ambigua truccatura del protagonista: calottina nera, completo bianco con grandi bottoni neri, maniche a sbuffo, scarpe e calze nere dal ginocchio in su. L'attrice introdusse disinvoltamente nell'universo divistico la pratica poco frequentata del travesti. Nel 1914 la Bertini concludeva in bellezza la sua collaborazione con la Celio: un realizzatore di grande prestigio, Nino Oxilia, e un soggetto a forti tinte, oltre naturalmente al virtuosismo della sua interpretazione, assicurarono un grande successo a Sangue bleu. Gli faceva eco, a distanza di pochi mesi, il favore di critica e di pubblico che accolse il primo film girato per la Caesar, Nelly la gigolette, una storia torbida e violenta, tutta tesa a valorizzare le qualità drammatiche - ma anche la presenza divistica - della protagonista. Subito dopo, ancora un'esperienza totalmente diversa, eccola interpretare, stavolta da protagonista, la versione cinematografica di Assunta Spina (1915). Nei panni della popolana partenopea, l'attrice si trasfigura, mostrando una grinta che la consegna direttamente alla storia del cinema. Ancora oggi, infatti, il film viene riconosciuto come il primo, significativo risultato raggiunto dal cinema italiano sulla strada del verismo, ed il punto più alto nella carriera della Bertini.
Ma l'attrice è figlia dei suoi tempi, ed è pertanto naturale tornare ai personaggi tratti dalla letteratura o dal teatro borghesi, La signora delle camelie, Odette, Tosca, Frou Frou, La piovra, La piccola fonte, La Contessa Sara e innumerevoli altri, in un susseguirsi di «grandi interpretazioni». Negli anni della grande guerra basterà lo striscione «stasera Bertini» perché immense folle riempiano i cinematografi.
L'attrice si ritirerà nel 1921, rifiutando un contratto milionario della Fox, per sposare il gioielliere Cartier. E ancora, a oltre novant'anni, lucida di spirito e di memoria, brillante e caustica, era capace di tener testa a incauti o irriverenti intervistatori.
«Era bellissima - scrisse di lei un cronista degli anni Sessanta - ma di bellezze come la sua ve ne erano altre in Italia. Lei seppe però rendersi unica e, presumibilmente, fece tutto da sola, d'istinto. Raccolse un grandissimo successo professionale, ma l'interpretazione perfetta la dette fuori dello schermo, divinizzandosi con rara abilità».
Da Le dive del silenzio, Le Mani, Genova, 2001.