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DVD Et Import: rock e follia

Il Natale marziano dei Flaming Lips e la psichedelia UK dei sixties.
di Emanuele Sacchi

Flaming Lips

lunedì 23 novembre 2009 - News

Flaming Lips
Rock e follia. Un binomio redditizio, che ha spesso portato a dischi indimenticabili. E per cui qualcuno ha pagato un prezzo anche molto alto, quando quella linea di confine, così facile da superare, è stata irreversibilmente attraversata. Viene in mente Syd Barrett e i Pink Floyd che ne hanno, più o meno inconsapevolmente, capitalizzato le intuizioni, giocando per decenni sulle psicosi lisergiche prima e da rockstar poi. Ma è solo il nome più ovvio di un elenco che potrebbe protrarsi per giorni interi (qualcuno sa/si interessa agli strani casi di gente come Wild Man Fischer o Roky Erickson? A Skip Spence che se ne va in giro brandendo l'ascia? ecc ecc). Esiste pure chi questa follia l'ha saputa canalizzare nella musica gestendola, mantenendo il controllo. Non con un'ottica da businessmen, ma con quella sincera del freak che con i robot rosa o con i pupazzetti colorati ci convive da un pezzo. Come Wayne Coyne da Oklahoma City e i suoi Flaming Lips, che, dopo un decennio di gavetta indie e di esperimenti oltre il limite della normale fruizione musicale (un quadruplo disco di nome Zaireeka suddiviso in quattro tracce diverse da ascoltare su altrettanti impianti stereo), ha trovato la quadratura del cerchio con un feelgood pop figlio di quella follia ma pure ad uso e consumo delle masse (che hanno molto apprezzato).
Essendo Coyne l'eccentrico che è, non poteva fermarsi qui e ha pensato bene di cimentarsi con il cinema, mettendo insieme i sogni della madre, i deliri suoi e un po' di cinefilia diffusa. Il risultato è Christmas on Mars, un progetto-calvario che ha richiesto sette anni di duro lavoro di Wayne e della band affinché venisse portato a termine – da rockstar a cineasta il passaggio è spesso traumatico – e che solo nel 2008 ha visto la luce. Un cult sicuro, pur con tutte le sue magagne e le sue ingenuità, o forse proprio in virtù di quelle. Un film di fantascienza che filosofeggia, un film sull'amore e sulla maternità, o anche un film di serie Z con l'opzione dei sottotitoli in russo (e solo in russo). Dipende tutto dalla prospettiva da cui lo si osserva, se quella terrestre o quella marziana.

Pink Floyd
Rock e follia, si diceva. Pink Floyd, si diceva. Gruppo che con il cinema, già dagli inizi, eoni prima di Muri e Bob Geldof, ebbe un rapporto privilegiato. Le colonne sonore di oscuri film indipendenti come More e La Vallée, i bizzarri progetti che Waters condivideva con Bryon Gysin, il ruolo fondamentale giocato in Zabriskie Point e non solo. In virtù di un suono che per la prima volta cercava qualcosa che stesse al di là degli schemi predefiniti di canzoni stipate in cinque minuti cinque; un respiro più ampio, naturalmente cinematografico. Tanto da portarli a celebrare (quella che poi capiremo essere) la fine della prima parte di carriera in un indimenticabile concerto tra le rovine di Pompei, ovviamente filmato e consegnato all'immortalità. Un embrione – giusto per citare un termine che ricorre sia nella carriera dei Floyd che in quella dei Flaming Lips – di quell'ostentazione che diverrà marchio di fabbrica e infine copione un po' stantio nel prosieguo della carriera. Ma perso nei meandri del cinema maledetto e sommerso c'è pure la collaborazione dei Floyd in The Committee di Peter Sykes: una manciata di brani - altrimenti inediti – incisi immediatamente dopo l'allontanamento di Syd Barrett e l'ingresso nel gruppo di David Gilmour. Non la sola ragione per avvicinarsi alla lucida follia di Sykes, ma di certo un ottimo pretesto per farlo.

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