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Rassegna stampa di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick è un attore statunitense, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, autore effetti, è nato il 26 luglio 1928 a New York City, New York (USA) ed è morto il 7 marzo 1999 all'età di 70 anni a Harpenden (Gran Bretagna).

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Stanley Kubrick è stato uno dei registi più originali, immaginifici ed esigenti del nostro tempo, leggenda vivente di mistero, ardore e rigore. E di autoesclusione, solitudine, controllo. Non andava mai da nessuna parte, non compariva alla tv, non concedeva interviste altro che a critici amici e seri come Michel Ciment, non presenziava a premiazioni, non faceva dichiarazioni, non partecipava a dibattiti. Nel 1961, quando a causa delle pressioni delle leghe americane per la salvaguardia della morale risultò impossibile realizzare Lolita negli Stati Uniti, andò a girarlo in Inghilterra e rimase lì. Per oltre trent'anni non ha messo piede nel suo Paese. Si era stabilito a trenta chilometri da Londra, nell'Hertfordshire, in una specie di castello, con molti animali e tra le donne: ha tre figlie, una terza moglie che è la pittrice tedesca Susanne Christiane (la prima moglie Toba Metz, sposata a diciotto anni, era una compagna di scuola; la seconda si chiamava Ruth Sobotka). Quasi s'ignorava che aspetto avesse: le poche fotografie di lui che circolano lo mostrano ancora bruno, ma con il tempo i capelli si sono fatti grigi e la fronte s'è denudata, gli occhi neri sono cerchiati e il viso è pallidissimo, soltanto la voce dolce e chiara era restata curiosamente giovane. Mangiava poco, vesteiva male e sempre con gli stessi indumenti, non guidava e proibiva all'autista di superare i cinquanta chilometri orari. Evitava i viaggi: da quando prese il brevetto di pilota d'aereo, aveva quasi smesso di volare. Evitava di conoscere gente nuova, d'incontrare persone. Lavorava per quanto è possibile in casa, dove aveva fatto installare una sala di montaggio e una sala di proiezione. Comunicava con gli altri per telefono, per computer, per fax, per videocassetta, per interfono: anche i suoi interpreti li sceglieva senza incontrarli fisicamente. Nemico dello snobismo, Kubrick vedeva tutti i film, compresi quelli brutti. Era nemico del sentimentalismo (“il contrario della verità”), della “originalità sterile e priva di interesse”, della facilità. Faceva poche chiacchiere. Era cresciuto nel Bronx, nato a New York in una famiglia ebrea americana d'origine mitteleuropea: il padre medico gli aveva insegnato l'amore per gli scacchi e per la fotografia. Era stato per quattro anni fotoreporter del settimanale Look, aveva diretto e prodotto a ventisei anni il suo primo film, Fear and Desire, paura e desiderio. Da allora, quasi tutti i dodici film straordinari e terribili realizzati durante una lunga vita hanno affrontato temi epocali, aperto al cinema nuove vie espressive e tecniche, suscitato polemiche moralistiche o politiche, provocato censure, fatto ammirare, amare, rispettare il regista da generazioni di spettatori: Orizzonti di gloria antimilitarista; la guerra della libertà in Spartacus; la passione carnale d'un adulto per una bambina dodicenne in Lolita; la caricatura della guerra fredda e della paura atomica ne Il dottor Stranamore; la reinvenzione della fantascienza (2001 Odissea nello spazio), della violenza giovanile (Arancia meccanica), del cinema in costume (Barry Lindon), dell'horror (Shining); la rivisitazione del conflitto del Vietnam (Full Metal Jacket) come dimostrazione dell'impossibilità e fine d'ogni guerra d'invasione. Molti di questi film sono tratti da romanzi: di autori classici come Thackeray, contemporanei come Nabokov, Arthur C. Clarke, Anthony Burgess o Gustav Hasford, popolari come Peter George o Stephen King. Kubrick dice di non scrivere o quasi soggetti originali perché non è sicuro di esserne capace, perché ha troppo rispetto per le buone storie, perché trovare una buona storia che possa diventare un buon film è davvero un miracolo: e se è scritta da altri il regista la controlla meglio. Controllo è la sua parola-chiave. La volontà di esercitare il massimo controllo possibile sul suo lavoro ha creato intorno a Kubrick molti malumori: è un fissato, è un maniaco, un ossesso... Ma la sua forza sta anche nel non aver “rinunciato alla libertà artistica in cambio della paga”, nell'aver capito che l'artigiano deve essere pure finanziere, nella costante attenzione alle questioni tecniche, economiche, promozionali, amministrative del film. E c'è grandezza, c'è una perenne utopia da adolescente, c'è qualcosa di eroico e insieme di disperato, in questa lotta del regista meraviglioso per salvare la logica, la lucidità, la perfezione del lavoro nel caos della post-modernità.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Le carezze, i baci, i languori e gli assalti, l'intimità profonda, le strette, l'oscenità e la febbre dell'amore carnale, al cinema non sono certo una novità: nell'ultimo tempo in particolare, alla solita cinepornografia s'é aggiunto l'Eros d'autore, e s'é avuta l'impressione che sessualmente non ci fosse più nulla di non-visto, nulla di non esplorato, non raccontato, non illustrato. Questo non vuol dire che Stanely Kubrick arrivi per ultimo né che arrivi troppo tardi. Da almeno trent'anni nelle storie di sesso Kubrick ha sempre cercato l'estremo, quella che era al momento la trasgressione massima: a parte i libertinaggi e l'erotismo di Barry Lindon, lo stupro orrendo e ironico di Arancia meccanica, l'uomo maturo innamorato d'una ragazzina in Lolita suscitarono scandalo come potranno forse suscitarlo la sessualità immaginata, l'ostinazione a inseguire il demone dentro di sé, la passione ambigua di Eyes Wide Shut. Non basta. Nei tredici film (pochi) realizzati in quarantasei anni di carriera, Kubrick ha affrontato spesso il cinema di genere: e di ciascuno di questi generi ha saputo cristallizzare l'essenza, su ciascuno ha detto un'ultima parola. I film di fantascienza erano stati infiniti, prima e dopo: ma2001 - Odissea nello spazio ha condensato come nessun altro lo spirito dell'era spaziale e quel rapporto tra l'uomo e il computer che è un fenomeno tipico e dominante del nostro tempo. Sulla guerra del Vietnam sono stati realizzati decine di film anche belli: ma soltanto Full Metal Jacket è arrivato a sintetizzare insieme col sentimento di vergogna per quella guerra, la disumanità dell'educazione a uccidere, di quel bellicismo violento e stupido già analizzato dal regista in Orizzonti di gloria. Le immagini sanguinose dell'horror si sono moltiplicate sempre più atroci, ma se si deve scegliere un'immagine esemplare d'orrore anche interiore, la prima è sempre quella di Jack Nicholson urlante con la bocca spalancata e gli occhi impazziti in Shining. Lo stesso potrà succedere per il genere erotico. Banalizzare il cinema di Kubrick è un'impresa perdente. Lui non cercava la moda, la novità, l'attualità, l'aggiornamento, l'informazione della cronaca, ma la profondità, il nucleo immutabile, il lato oscuro, l'essenza della natura umana. Nelle apparenti incertezze, era abbastanza sicuro di sé da esser certo di poterli faticosamente raggiungere: e non aveva torto, i suoi film rappresentano sui rispettivi temi una citazione inevitabile, un punto di riferimento obbligato, a volte proverbiale.

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

"Kubrick, basta la parola". Quando nasce, il cinema è per tutti: fenomeno popolare, che coinvolge le masse nell'avventura fantastica delle cose che prendono vita proprio li davanti, sullo schermo bianco. Con Kubrick l'avventura continua e si esalta: spettacolo per tutti, ancora una volta, ma con un messaggio diverso per ciascuno degli spettatori. L'illetterato e il genio, il bambino e l'anziano, l'uomo e la donna, ciascuno è coinvolto dal cinema di questo mago, che mai tradisce l'anima spettacolare del mezzo con cui si esprime e, insieme, mai dimentica di essere, semplicemente, un genio.

MARIA PIA FUSCO
La Repubblica

Il museo statale di Francoforte espone invece una prima scelta di materiali di Stanley Kubrick, forniti dalla famiglia. Le casse di appunti e relitti sarebbero centinaia: ma si sa che le mostre sui registi appaiono povere e patetìche. Tante pagine di sceneggiature e di memo , mappe, note, mucchi di foto e ritagli di giornale, chilometri di scotch tape in-giallito. E i residui dell'attività: molte fotocamere, assortimenti di obiettivi, bacheche di story boards anche minimali. Oltre le numerose pagine della rivista Look, con l'abbondante produzione di Kubrick fotoreporter giovanissimo e dotatissimo, attratto dalle bizzarre immagini di un'America amara e profonda. Pugili, gangster, vetrine di giocattoli, maschere di gomma, gruppi e riti sconcertati, chioschi, jazz, strip-tease, stazioncine sperdute, i giovani Frank Sinatra e Montgomery Clift. Fra le paginate di fotogiornalismo quindicinale, un tamburo privato, una scacchiera prediletta, i flash d'epoca, un paio di costumi dal film Spartacus. E molta saggistica: i giudizi vanno da Gilles Deleuze («un cinema di cervello») ad Andrew Sarris: «La sua tragedia fu di venire esaltato come grande artista prima di poter di-ventare un artigiano competente».

EDOARDO BRUNO

Come in un Atlante della Filosofia i film di Kubrick tracciano un viaggio nello spazio e nel tempo muovendosi in un territorio vastissimo, inseguendo una idea di laicismo, imperniato in quel gesto di sfida che l'uomo primitivo di 2001 Odissea nello spazio compie lanciando l'osso contro il cielo. In questa dissacrazione l'homo sapiens si forma fuori dalla preistoria del mito, dal fantasioso mondo degli dei, materialisticamente legato alle leggi della sopravvivenza, drammaticamente alla scoperta dell'altro.
Kubrick converge sul piano di una psicologia storica e non solo naturalistica, corrispondente a una fase di passaggio dalla psicologia alla ideologia, inventandosi luoghi-non-luoghi, dove il set costruisce le epoche e gli spazi, creando attorno ai personaggi itinerari solo mentali. Il suo uomo, l'eroe di questa traiettoria del pensiero, è l'uomo solitario, il nuovo Ulisse che si propone come l'uomo moderno, in un continuo transfert nella paura di un ignoto da conquistare, in una scrittura dai segni indecifrabili, in una fiction dell'identità. Geroglifici come i luoghi-non-luoghi del Vietnam in Full metal jacket più vero del vero nella sua astrazione geometrica o quelli di Barry Lyndon tratteggiati come i cartigli del Settecento o le punte secche dei libri di erbario. Tutto si definisce in dettagli immaginari, che si sgranano come i punti di una foto ingrandita ritessendosi in un'ottica speculare. Luoghi-non-luoghi, speculazioni mentali risolte in questa geografia ideale, che ha il mondo come suo luogo, Europa, America, Vietnam o l'Universo astrale, che Kubrick 'visitava' senza muoversi dalla sua tenda nella villa di Londra, come Kant, che non si muoveva dalla natìa Konisberg, spaziando virtualmente nelle traiettorie metafisiche della ragione.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Incoraggiato dal padre medico nel Bronx ad occuparsi di fotografia, lavora a 17 anni per Look e a 22 realizza il primo cortometraggio (Day of the Fight,1950). Per il primo lungometraggio - Fear and Desire,1953 - si sobbarca tutti i mestieri meno la recitazione, ed è soltanto con il successivo Rapina a mano armata (1956), che si può muovere in scioltezza, mentre sarà con Orizzonti di gloria (1957), aspro pamphlet antimilitarista, che s'imporrà all'attenzione generale. Il cinema industriale lo accoglierà per caso, con Spartacus (1960), che il protagonista Kirk Douglas, insoddisfatto di Anthony Mann, gli fa affidare.

UGO CASIRAGHI

«Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio. Il mio fucile è il mio migliore amico. È la mia vita. Io debbo dominarlo come domino la mia vita. Senza di me, il mio fucile è niente. Senza il mio fucile, io sono niente. Debbo saper colpire il bersaglio: debbo sparare meglio del mio nemico, che cerca di ammazzare me. Debbo sparare io prima che lui spari a me. E lo farò. Al cospetto di Dio giuro su questo "credo". Il mio fucile e io siamo i difensori della nostra patria, siamo i dominatori dei nostri nemici, siamo i salvatori della nostra vita: e così sia».
È preghiera del marine, del marine «nato per uccidere», del marine d'acciaio come la corazza che avvolge le sue pallottole (Full Metal Jacket). Questa «preghiera» risuona alta e corale, strappata alle viscere delle reclute. «Se voi signorine - aveva avvertito il sergente istruttore - finirete questo corso, se riuscirete a sopravvivere all'addestramento, diventerete armi, diventerete dispensatori di morte: pregherete per andare a combattere».
L'ultimo film di Stanley Kubrick si apre con la sequenza della tosatura. Come pecore le reclute vengono rapate a zero, poi messe in mutande e subito aggredite dall'energumeno. «Più mi odierete e più imparerete. Io sono un duro, ma sono giusto. Non si fanno distinzioni razziali, qui dentro. Qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani. Qui vige l'eguaglianza; non conta un cazzo nessuno».
La terapia cui sono sottoposti i futuri dispensatori di morte in Vietnam assomiglia molto alla «cura Ludovico» a base di musica di Beethoven, nella quale veniva immerso il teppista violentatore di Arancia meccanica per essere trasformato in individuo utile alla società, con le energie incanalate in chiave «positiva». Solo che, nel trapasso dalla pace alla guerra, il procedimento è rovesciato: nella scuola di Parris Island, South Carolina, si accolgono normali civili per farne dei violentatori e dei killers. E se la cavia di Arancia meccanica diventava, grazie alla cura, un automa impazzito, in Full Metal Jacket lo scopo è diverso: non di robot c'è bisogno, ma di soldati coscienti e determinati. Coscienti di essere born to kill, nati per uccidere, e determinati a farlo con il massimo di efficacia.

News

Il regista di Inception e Dunkirk ha finanziato il restauro in 70mm di 2001: Odissea nello spazio, dal 4 giugno al cinema.
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