Stanley Kubrick è un attore statunitense, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, autore effetti, è nato il 26 luglio 1928 a New York City, New York (USA) ed è morto il 7 marzo 1999 all'età di 70 anni a Harpenden (Gran Bretagna).
Stanley Kubrick è stato uno dei registi più originali, immaginifici ed esigenti del nostro tempo, leggenda vivente di mistero, ardore e rigore. E di autoesclusione, solitudine, controllo. Non andava mai da nessuna parte, non compariva alla tv, non concedeva interviste altro che a critici amici e seri come Michel Ciment, non presenziava a premiazioni, non faceva dichiarazioni, non partecipava a dibattiti. Nel 1961, quando a causa delle pressioni delle leghe americane per la salvaguardia della morale risultò impossibile realizzare Lolita negli Stati Uniti, andò a girarlo in Inghilterra e rimase lì. Per oltre trent'anni non ha messo piede nel suo Paese. Si era stabilito a trenta chilometri da Londra, nell'Hertfordshire, in una specie di castello, con molti animali e tra le donne: ha tre figlie, una terza moglie che è la pittrice tedesca Susanne Christiane (la prima moglie Toba Metz, sposata a diciotto anni, era una compagna di scuola; la seconda si chiamava Ruth Sobotka). Quasi s'ignorava che aspetto avesse: le poche fotografie di lui che circolano lo mostrano ancora bruno, ma con il tempo i capelli si sono fatti grigi e la fronte s'è denudata, gli occhi neri sono cerchiati e il viso è pallidissimo, soltanto la voce dolce e chiara era restata curiosamente giovane. Mangiava poco, vesteiva male e sempre con gli stessi indumenti, non guidava e proibiva all'autista di superare i cinquanta chilometri orari. Evitava i viaggi: da quando prese il brevetto di pilota d'aereo, aveva quasi smesso di volare. Evitava di conoscere gente nuova, d'incontrare persone. Lavorava per quanto è possibile in casa, dove aveva fatto installare una sala di montaggio e una sala di proiezione. Comunicava con gli altri per telefono, per computer, per fax, per videocassetta, per interfono: anche i suoi interpreti li sceglieva senza incontrarli fisicamente. Nemico dello snobismo, Kubrick vedeva tutti i film, compresi quelli brutti. Era nemico del sentimentalismo (“il contrario della verità”), della “originalità sterile e priva di interesse”, della facilità. Faceva poche chiacchiere. Era cresciuto nel Bronx, nato a New York in una famiglia ebrea americana d'origine mitteleuropea: il padre medico gli aveva insegnato l'amore per gli scacchi e per la fotografia. Era stato per quattro anni fotoreporter del settimanale Look, aveva diretto e prodotto a ventisei anni il suo primo film, Fear and Desire, paura e desiderio. Da allora, quasi tutti i dodici film straordinari e terribili realizzati durante una lunga vita hanno affrontato temi epocali, aperto al cinema nuove vie espressive e tecniche, suscitato polemiche moralistiche o politiche, provocato censure, fatto ammirare, amare, rispettare il regista da generazioni di spettatori: Orizzonti di gloria antimilitarista; la guerra della libertà in Spartacus; la passione carnale d'un adulto per una bambina dodicenne in Lolita; la caricatura della guerra fredda e della paura atomica ne Il dottor Stranamore; la reinvenzione della fantascienza (2001 Odissea nello spazio), della violenza giovanile (Arancia meccanica), del cinema in costume (Barry Lindon), dell'horror (Shining); la rivisitazione del conflitto del Vietnam (Full Metal Jacket) come dimostrazione dell'impossibilità e fine d'ogni guerra d'invasione. Molti di questi film sono tratti da romanzi: di autori classici come Thackeray, contemporanei come Nabokov, Arthur C. Clarke, Anthony Burgess o Gustav Hasford, popolari come Peter George o Stephen King. Kubrick dice di non scrivere o quasi soggetti originali perché non è sicuro di esserne capace, perché ha troppo rispetto per le buone storie, perché trovare una buona storia che possa diventare un buon film è davvero un miracolo: e se è scritta da altri il regista la controlla meglio. Controllo è la sua parola-chiave. La volontà di esercitare il massimo controllo possibile sul suo lavoro ha creato intorno a Kubrick molti malumori: è un fissato, è un maniaco, un ossesso... Ma la sua forza sta anche nel non aver “rinunciato alla libertà artistica in cambio della paga”, nell'aver capito che l'artigiano deve essere pure finanziere, nella costante attenzione alle questioni tecniche, economiche, promozionali, amministrative del film. E c'è grandezza, c'è una perenne utopia da adolescente, c'è qualcosa di eroico e insieme di disperato, in questa lotta del regista meraviglioso per salvare la logica, la lucidità, la perfezione del lavoro nel caos della post-modernità.
Da La Stampa, 26 Agosto 1997
Le carezze, i baci, i languori e gli assalti, l'intimità profonda, le strette, l'oscenità e la febbre dell'amore carnale, al cinema non sono certo una novità: nell'ultimo tempo in particolare, alla solita cinepornografia s'é aggiunto l'Eros d'autore, e s'é avuta l'impressione che sessualmente non ci fosse più nulla di non-visto, nulla di non esplorato, non raccontato, non illustrato. Questo non vuol dire che Stanely Kubrick arrivi per ultimo né che arrivi troppo tardi. Da almeno trent'anni nelle storie di sesso Kubrick ha sempre cercato l'estremo, quella che era al momento la trasgressione massima: a parte i libertinaggi e l'erotismo di Barry Lindon, lo stupro orrendo e ironico di Arancia meccanica, l'uomo maturo innamorato d'una ragazzina in Lolita suscitarono scandalo come potranno forse suscitarlo la sessualità immaginata, l'ostinazione a inseguire il demone dentro di sé, la passione ambigua di Eyes Wide Shut. Non basta. Nei tredici film (pochi) realizzati in quarantasei anni di carriera, Kubrick ha affrontato spesso il cinema di genere: e di ciascuno di questi generi ha saputo cristallizzare l'essenza, su ciascuno ha detto un'ultima parola. I film di fantascienza erano stati infiniti, prima e dopo: ma2001 - Odissea nello spazio ha condensato come nessun altro lo spirito dell'era spaziale e quel rapporto tra l'uomo e il computer che è un fenomeno tipico e dominante del nostro tempo. Sulla guerra del Vietnam sono stati realizzati decine di film anche belli: ma soltanto Full Metal Jacket è arrivato a sintetizzare insieme col sentimento di vergogna per quella guerra, la disumanità dell'educazione a uccidere, di quel bellicismo violento e stupido già analizzato dal regista in Orizzonti di gloria. Le immagini sanguinose dell'horror si sono moltiplicate sempre più atroci, ma se si deve scegliere un'immagine esemplare d'orrore anche interiore, la prima è sempre quella di Jack Nicholson urlante con la bocca spalancata e gli occhi impazziti in Shining. Lo stesso potrà succedere per il genere erotico. Banalizzare il cinema di Kubrick è un'impresa perdente. Lui non cercava la moda, la novità, l'attualità, l'aggiornamento, l'informazione della cronaca, ma la profondità, il nucleo immutabile, il lato oscuro, l'essenza della natura umana. Nelle apparenti incertezze, era abbastanza sicuro di sé da esser certo di poterli faticosamente raggiungere: e non aveva torto, i suoi film rappresentano sui rispettivi temi una citazione inevitabile, un punto di riferimento obbligato, a volte proverbiale.
Da La Stampa, 12 Luglio 1999
"Kubrick, basta la parola". Quando nasce, il cinema è per tutti: fenomeno popolare, che coinvolge le masse nell'avventura fantastica delle cose che prendono vita proprio li davanti, sullo schermo bianco. Con Kubrick l'avventura continua e si esalta: spettacolo per tutti, ancora una volta, ma con un messaggio diverso per ciascuno degli spettatori. L'illetterato e il genio, il bambino e l'anziano, l'uomo e la donna, ciascuno è coinvolto dal cinema di questo mago, che mai tradisce l'anima spettacolare del mezzo con cui si esprime e, insieme, mai dimentica di essere, semplicemente, un genio.
Come sottolinea Michel Chion nel suo corposo Stanley Kubrick -L'umano, né più né meno, che ripercorre tutta l'immensa carriera del cineasta americano scomparso nel '99, siamo di fronte a «un cinema sovraesposto: la sua scelta consiste nel conservare il linguaggio classico del cinema esponendo però il suo meccanismo, i suoi elementi a una luce cruda e viva. Nella sua opera è difficile non vedere che è un attore che recita e che talora recita sopra le righe (soprattutto quando riveste più ruoli, come Peter Sellers). È difficile non notare che il découpage organizza, il montaggio monta, il missaggio missa; è difficile non sentire che la musica è stata aggiunta aposteriori ...». Insomma, aggiungiamo, è impossibile non sentire " la firma" di Kubrick: ma è una firma che esalta la visione, che non schiaccia mai la dimensione dello stupore, che risucchia addirittura il pubblico nello schermo. Quello che soprattutto si sente è l'intelligenza superiore dell'autore. Nell'introduzione a Interviste extraterrestri che propone i pareri di numerosi scienziati di fama mondiale raccolti per conto di Kubrick prima di girare 2001 Odissea nello spazio il curatore Anthony Frewin ricorda gli interessi extra-cinematografici del suo antico maestro: «Napoleone, Giulio Cesare, Hitler, l'Olocausto, Ernest Hemingway, la fisica, gli eventi contemporanei, la boxe, il football americano, le due guerre mondiali, la guerra civile americana, fino ad argomenti più arcani, come la storia dei tassi d'interesse, i miglioramenti del revolver Colt, le lezioni di Dien Bien Phu, le prime influenze su Curzio Malaparte, il vero scopritore dell'America, l'etimologia dei nomi dei luoghi inglesi».Quello che è davvero stupefacente è che questo caotico accumulo di interessi non sia finito in una malattia mentale, anzi abbia prodotto un'opera estremamente varia, polisemica, vitalissima. -
Ne è un ulteriore esempio proprio il libro curato da Frewin, che mostra A maniacale lavoro di preparazione del film più celebre, quell'Odissea diventata paradigma di ogni film fantascientico. Si va da Isaac Asimov a Margaret Mead, da sir Bernard Lovell ad Aleksandr Oparin, per chiedere a tutti la stessa cosa: «Esistono altre forme di vita intelligente nell'Universo? E, se la risposta è positiva, quando e come entreremo in contatto?». Le interviste, filmate in giro per il mondo da un assistente, dovevano precedere il film, ma alla fine il regista decise di usarle solo come materiale preparatorio. A noi, ora, il piacere di leggerle.
Da Il Sole-24-Ore, 11 febbraio 2007
Il museo statale di Francoforte espone invece una prima scelta di materiali di Stanley Kubrick, forniti dalla famiglia. Le casse di appunti e relitti sarebbero centinaia: ma si sa che le mostre sui registi appaiono povere e patetìche. Tante pagine di sceneggiature e di memo , mappe, note, mucchi di foto e ritagli di giornale, chilometri di scotch tape in-giallito. E i residui dell'attività: molte fotocamere, assortimenti di obiettivi, bacheche di story boards anche minimali. Oltre le numerose pagine della rivista Look, con l'abbondante produzione di Kubrick fotoreporter giovanissimo e dotatissimo, attratto dalle bizzarre immagini di un'America amara e profonda. Pugili, gangster, vetrine di giocattoli, maschere di gomma, gruppi e riti sconcertati, chioschi, jazz, strip-tease, stazioncine sperdute, i giovani Frank Sinatra e Montgomery Clift. Fra le paginate di fotogiornalismo quindicinale, un tamburo privato, una scacchiera prediletta, i flash d'epoca, un paio di costumi dal film Spartacus. E molta saggistica: i giudizi vanno da Gilles Deleuze («un cinema di cervello») ad Andrew Sarris: «La sua tragedia fu di venire esaltato come grande artista prima di poter di-ventare un artigiano competente».
Kubrick nasce nel 1928 a New York, in una famiglia ebrea di professionisti abbienti e integrati, incomincia con due film molto “noir” - Killer's Kiss e The Killing con ingredienti canonici: la finestra sul cortile, la solitudine metropolitana, il gangster Rapallo, l'inseguimento con sparatoria in un magazzino di specchi e manichini, i flashback in attesa di un treno decisivo su un marciapiede di stazione. (Espediente usato perfino da Anna Banti nelle Mosche d'oro: «Rimasticava questi ricordi marginali e spiacevoli», alla Gare de Lyon).
Poi qualche documentario su reverendi eccentrici e boxeurs in tournée e ciurme di cargo. Ed ecco Paths of Glory, sul terribile trauma dell'impatto tecnologico nei massacri della Grande Guerra: dunque molto più discusso di Niente di nuovo sul fronte occidentale (dal libro di E. M. Remarque) e della Grande illusione dì Jean Renoir.
Ora la sua immagine grandiosa e visionaria, però maniacale nel perfezionismo sui dettagli, ci può attualmente colpire per l'affinità col sommo Max Reinhardt, gran maestro dell'invenzione fantastica austro- ebraica con le risorse tecniche del primo Novecento. Come tipicamente i grandi produttori che dall'Europa centro-orientale passarono a inventare Hollywood, con soste decisive a Vienna, e potenti impulsi stilistici di registi ebrei coIossali o stravaganti come Stroheim, Ophlus, il Wyler, Wilder, Preminger, Ulmer, Curtiz, Cukor... Venuti per Io più da villaggi modesti, non da centri d' arte come Roma o Firenze o Venezia o Napoli, malgrado le emigrazioni italiane.
Qui i materiali abbonderebbero, tra le frequenti retrospettive alla Fondazione Reinhardt di Salisburgo e gli scritti di Guido Fink sugli ebrei e il cinema americano, nella Storia del cinema mondiale (Einaudi). Ma già si è spesso osservato che per interpretare efficacemente i romani antichi al cinema ci vogliono appunto attori ebrei (come Kirk Douglas, Tony Curtis, Elizabeth Taylor) oppure inglesi (come Laurence Olivier, Charles Laughton, Jean Simmons). E questo si vede proprio in Spartacus. Mentre gli attori italiani paiono generalmente più adatti a ruoli di piccoli borghesi bruttini in crisi per problemi fa-miliari e revisionisticì fra l'angolo-cottura e il posto-motorino. (Lo si è visto ancora poco fa; tra gli utenti interpellati, nessuno ha indicato qualche italiano per fare Achille o chicchessia a Troia. Forse sarebbe più adatto qualche nostro calciatore, attualmente).
Kubrick sposa una figlia di Veit Harlan, il celebre regista di Suss I'ebreo , grandioso film antisemitico del 1940 raccomandato da Josef Goebbels a tutti i giovani, e con una scena-madre che Manuel Puig descriveva come indimenticabile . Anche perché ricalca il secondo atto della Tosca. Come Scarpia, il potente Suss fa torturare il fidanzato della bionda ariaria Kiistina Soderbaum perché sia lei a pregarlo di possederla, onde far cessare il supplizio. Tutta la famiglia Harlan ha sempre affiancato Kubrick nel suo immenso lavoro, e anche perciò questa loro prima mostra si tiene a Francoforte. Qualche aura wagneriana si avvertiva anche in Eyes Wide Shut, perché malgrado la trama presa in un racconto di Schnitzler, e iI valzerone frivolo del giovane Sostakovic, la messinscena dell'orgia ammantellata rifà gli schieramenti dei migliori Parsifal a Bayreuth.
Qui, piuttosto, sembrano interessantissimi i caratteri mentali e produttivi. Fra gli occhiali a cuore di Lolita, le comunicazioni della Chiesa Presbiteriana che gentilmente informa di trovare «degenerata» la pedofilia, gli accorgimenti per riprendere le prospettive delle astronavi nello spazio o i notturni di Barry Lyndon a lume di candela. E le gru altissime per i panorami di centinala di morti in elmi e corazze distesi col proprio numero d'ordine lungo una collina, proprio come le formazioni i fanti o elefanti nelle battaglie di Zama e Canne sull'Atlante di Storia Antica dei professori pavesi Mario Baratta e Plinio Fraccaro.
Colpisce lì questa enorme ossessività coatta e sistematica per le minuzie documentali e amministrative della genialità smisurata, contenuta nelle centinaia di scatoloni. Fra le migliaia di modellini e i milioni di ricognizioni storiche, fino agli scalferotti per i cavalli nella neve, nel mai realizzato Napoleone (dove però la scelta di Audrey Hepburn quale sexy creola Joséphine Beauharnais pare incongrua). Vengono dunque spontanei i paragoni con Rossellini e Pasolini e gli altri (magari Totò e Peppino) che arrivavano sul set con due battute sul rovescio d'una busta, e poi improvvisavano (magari anche le luci).
Ecco però una sensazionale dimostrazione pratica di creatività operativa. La messa a punto, caso per caso, di un organismo originale e autonomo, ogni volta archetipo e autentico e diverso da tu tutti gli altri, perché dotato di leggi strutturali e formali assolutamente proprie e inconfondibili. Un problema eccelso, dunque: inventare assiduamente un Grande Stile sempre distinto e distinguibile, mai ricorrendo alla riconoscibilità di una cifra o un déjà vu.
Da La Repubblica, 6 giugno 2004
Come in un Atlante della Filosofia i film di Kubrick tracciano un viaggio nello spazio e nel tempo muovendosi in un territorio vastissimo, inseguendo una idea di laicismo, imperniato in quel gesto di sfida che l'uomo primitivo di 2001 Odissea nello spazio compie lanciando l'osso contro il cielo. In questa dissacrazione l'homo sapiens si forma fuori dalla preistoria del mito, dal fantasioso mondo degli dei, materialisticamente legato alle leggi della sopravvivenza, drammaticamente alla scoperta dell'altro.
Kubrick converge sul piano di una psicologia storica e non solo naturalistica, corrispondente a una fase di passaggio dalla psicologia alla ideologia, inventandosi luoghi-non-luoghi, dove il set costruisce le epoche e gli spazi, creando attorno ai personaggi itinerari solo mentali. Il suo uomo, l'eroe di questa traiettoria del pensiero, è l'uomo solitario, il nuovo Ulisse che si propone come l'uomo moderno, in un continuo transfert nella paura di un ignoto da conquistare, in una scrittura dai segni indecifrabili, in una fiction dell'identità. Geroglifici come i luoghi-non-luoghi del Vietnam in Full metal jacket più vero del vero nella sua astrazione geometrica o quelli di Barry Lyndon tratteggiati come i cartigli del Settecento o le punte secche dei libri di erbario. Tutto si definisce in dettagli immaginari, che si sgranano come i punti di una foto ingrandita ritessendosi in un'ottica speculare. Luoghi-non-luoghi, speculazioni mentali risolte in questa geografia ideale, che ha il mondo come suo luogo, Europa, America, Vietnam o l'Universo astrale, che Kubrick 'visitava' senza muoversi dalla sua tenda nella villa di Londra, come Kant, che non si muoveva dalla natìa Konisberg, spaziando virtualmente nelle traiettorie metafisiche della ragione.
Anche se la filosofia non dovrebbe interessarsi del come un pensiero è stato formulato, ma, in buona regola ermeneutica, del perché è stato formulato e conoscerne il contesto, si può dire che Kubrick immagina il preistorico come un dato esistenziale e, scavalcando i secoli, sino all'ipotesi contemporanea, il presente come sfida alle religioni e agli dei, lanciandosi verso un mondo dove la ragione predomina. Nella sua traiettoria mentale Kubrick attraversa le epoche, costruisce ipotesi filosofiche, si rinserra nella claustrofobia sessuale di Lolita, dissacra il gesto dell'uomo primitivo in 2001: Odissea nello spazio, ritrova la malinconia, non in senso nichilista ma in senso tragico, in Barry Lyndon, recupera, al di là della simulazione, l'atelier dell'immaginario in Shining, drammaticamente ridisegna un paesaggio nel volto indimenticabile della vietnamita in Full metal jacket e rimette in discussione i detriti del Novecento con Eyes wide Shut.
Con Shining costruisce il suo castello isolato, il labirinto, come luogo della scrittura, citando Borges: "entrarvi è collocarsi in una solitudine volontaria, tentare la soluzione rifiutando ogni aiuto che non sia quello della propria mente". La serie di inquadrature dall'alto, quasi aeree carrellate sull'abisso, che introducono a questo ennesimo viaggio mentale, danno una dimensione diversa al 'senso' del terrore, in un viaggio tutto interiore nella paura e nell'incubo. Nel silenzio, il rumore della macchina da scrivere acquista una risonanza imprevista, il rapporto scrittore-creazione-donna assume la dimensione dilatata di un fallimento, quasi un rapporto celibe tra oggetti animati, mentre il bambino si spalanca nel vuoto delle sue fantasie. L'horror se si vuole è in questo interno, filosoficamente, 'a porte chiuse', dove la memoria di un massacro rimuove una serie di incubi e dove un labirinto in un giardino incantato rivela itinerari nascosti, come nello spaccato di un cervello, mentre la musica riporta indietro il tempo, arrestato nei lembi di una fotografia.
Accompagnato da un valzer di Sciostakovich che imprime un senso tragico al movimento ritmico, Eyes Wide Shut affonda in una vertigine oscura il senso imperscrutabile del tempo. Questo modo di rendere fittizia la scena, di introdurre una distanza tra l'oggetto e il racconto, permette di elidere il reale in una visione mentale tutta onirica. La stessa città si dissolve nei contorni di un set immaginario dove tutto si muove in una falsa coincidenza col vero. New York e e non e; ogni cosa viene assorbita, nell'ombra e nella luce, in una zona di pensiero dove si sedimentano la Vienna di Schnitzler e la Londra reale; le strade, i grattacieli, i negozi, le insegne hanno un sapore astratto, sono paesaggi di inquietudini dove i personaggi si muovono come in un incubo e ogni elemento è la copia precisa, dell'altro, come in un raddoppio metafisico, senz'aria. Paesaggio filosofico che si sublima in questa dualità di un presagio futuro, dove il corpo femminile si condensa nel segno materialistico di un mondo nuovo, costruito su ciò che residua il Novecento - il cinema, la psicoanalisi, l'avventura spaziale. In questo caso lo scandalo di un ritorno alla corporeità, rappresentato dall'invito della donna con il suo let's fuck, non vuole essere che la conclusione di una esperienza filosofica espletata in un linguaggio filmico in estremo raccordo tra visione e pensiero, dove i primi piani, i travelling alla Ophüls, come li definiva Godard, la elaborata costruzione del set, rappresentano il 'miraggio materialista' in cui luci e colori, volti e corpi, si riappropriano del tessuto visionario. Con la mdp immobile nei piani alternati, nel dialogo tra l'uomo e la donna, quasi a costituire un unico piano-sequenza, con la stessa forza ed emozione fredda con la quale Straub-Huillet serravano l'implacabile disputa di Von Heute auf Morgen di Schoenberg, Kubrick introduce il tema ossessivo della gelosia, 'scatenato' dall'immagine virtuale del corpo violato, facendo dell'intenzione la crisi e della presunzione l'eccitazione che il pensiero porta chiuso con sé, sadianamente, nel 'disordine e nell'eccesso'. Come accade nella sequenza dell'obitorio dove la visione del corpo nudo di una donna 'si fa scegliere' come testo nelle ragioni segrete di un desiderio che si impone oltre la morte, in una oscenità sublimata in un attimo senza limite. L’arresto alla parola 'sempre' riferita alla durata dell'amore dalla donna e l'invito a 'scopare', a stare, come annota Garroni, 'alla certezza del presente', ed a considerare il giorno per giorno, materialisticamente, come l'unica realtà possibile, diviene il cogitum che rivela la concezione vitalistica, propria della sua odissea, di questa avventura nello spazio e nel tempo. Così Kubrick rivendica l'essere della propria esistenza, (essenza oltre la vita e la morte, il reale e l'immaginario, il passato e il futuro.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006
Incoraggiato dal padre medico nel Bronx ad occuparsi di fotografia, lavora a 17 anni per Look e a 22 realizza il primo cortometraggio (Day of the Fight,1950). Per il primo lungometraggio - Fear and Desire,1953 - si sobbarca tutti i mestieri meno la recitazione, ed è soltanto con il successivo Rapina a mano armata (1956), che si può muovere in scioltezza, mentre sarà con Orizzonti di gloria (1957), aspro pamphlet antimilitarista, che s'imporrà all'attenzione generale. Il cinema industriale lo accoglierà per caso, con Spartacus (1960), che il protagonista Kirk Douglas, insoddisfatto di Anthony Mann, gli fa affidare.
Umor nero, sarcasmo, inclinazione al macabro, disprezzo per la fragilità e la credulità dell'uomo, gusto della crudeltà - le caratteristiche già in parte evidenti sin qui - esplodono con forza maggiore in Lolita (1962), da Nabokov, in Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964), satira del paventato olocausto nucleare, in: 2001Odissea nello spazio (1968), epopea fantascientifica di raffinata costruzione (e profusione perfino eccessiva di effetti speciali), di contorto significato, ma di intatta suggestione, soprattutto nella fiabesca fantasmagoria. Con Arancia meccanica (1971), il sadismo che sottende ogni mossa di Kubrick si fa esplicito e diretto (si racconta della «rieducazione» di un giovane delinquente, sottoposto a torture non diverse dalle violenze cui egli costringeva le sue vittime), e se con Barry Lyndon (1975) attenua il suo pessimismo preferendo dedicarsi a sperimentazioni tecniche prodigiose (illuminazione naturale, uso dello steadicam), con Shining (1980), da un romanzo di Stephen King, e con Full Metal Jacket (1987), un Orizzonti di gloria più feroce, latrabile invade ogni spazio e corrompe ogni rapporto umano. L'horror kinghiano nasce in una situazione di forzata e invernale solitudine (un pazzo terrorizza la moglie e il figlio ma soccombe all'astuzia infantile), mentre quello ambientato in un campo di addestramento per marines e in Vietnam (ricostruito alla periferia di Londra) nasce dalla paura e dalla ferocia. Kubrick vive isolato, in Inghilterra, immerso nelle sue ossessioni e nella sua genialità di cineasta.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
«Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio. Il mio fucile è il mio migliore amico. È la mia vita. Io debbo dominarlo come domino la mia vita. Senza di me, il mio fucile è niente. Senza il mio fucile, io sono niente. Debbo saper colpire il bersaglio: debbo sparare meglio del mio nemico, che cerca di ammazzare me. Debbo sparare io prima che lui spari a me. E lo farò. Al cospetto di Dio giuro su questo "credo". Il mio fucile e io siamo i difensori della nostra patria, siamo i dominatori dei nostri nemici, siamo i salvatori della nostra vita: e così sia».
È preghiera del marine, del marine «nato per uccidere», del marine d'acciaio come la corazza che avvolge le sue pallottole (Full Metal Jacket). Questa «preghiera» risuona alta e corale, strappata alle viscere delle reclute. «Se voi signorine - aveva avvertito il sergente istruttore - finirete questo corso, se riuscirete a sopravvivere all'addestramento, diventerete armi, diventerete dispensatori di morte: pregherete per andare a combattere».
L'ultimo film di Stanley Kubrick si apre con la sequenza della tosatura. Come pecore le reclute vengono rapate a zero, poi messe in mutande e subito aggredite dall'energumeno. «Più mi odierete e più imparerete. Io sono un duro, ma sono giusto. Non si fanno distinzioni razziali, qui dentro. Qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani. Qui vige l'eguaglianza; non conta un cazzo nessuno».
La terapia cui sono sottoposti i futuri dispensatori di morte in Vietnam assomiglia molto alla «cura Ludovico» a base di musica di Beethoven, nella quale veniva immerso il teppista violentatore di Arancia meccanica per essere trasformato in individuo utile alla società, con le energie incanalate in chiave «positiva». Solo che, nel trapasso dalla pace alla guerra, il procedimento è rovesciato: nella scuola di Parris Island, South Carolina, si accolgono normali civili per farne dei violentatori e dei killers. E se la cavia di Arancia meccanica diventava, grazie alla cura, un automa impazzito, in Full Metal Jacket lo scopo è diverso: non di robot c'è bisogno, ma di soldati coscienti e determinati. Coscienti di essere born to kill, nati per uccidere, e determinati a farlo con il massimo di efficacia.
Chi impazzisce, invece, è Palla di lardo, il povero ciccione che non resiste alla terapia e che, al posto di puntare l'arma contro un vietcong, la scarica addosso al sergente di ferro che lo ha reso una salva, riservando a se stesso l'ultima pallottola superblindata.
Ambientata nel biancore accecante dei cessi, tirati a lucido dalle reclute come il resto della caserma, questa sola sequenza racchiude l'orrore dell'intero Shining, il film precedente di Kubrick uscito nel 1980.
Il ghigno omicida del vilipeso e umiliato Palla di Lardo scuote il pubblico assai più di quello satanico e ironicamente sopra le righe di Jack Nicholson: assistiamo in diretta alla metamorfosi di un placido grassone, buono tutt'al più per un film comico, in un vendicatore terrificante. Gli hanno voluto cambiare l'anima, rovesciare l'indole e la coscienza: e questo è il risultato. L'esplosione di follia e di tragedia sigilla il primo tempo del film, che è tutto un urlo, in un quasi insostenibile diapason; e a questo punto, è come se l'intera partita fosse conclusa.
Nella partita a scacchi che è sempre un film di Kubrick, la pedina più forte è stata giocata in questo vertice emozionale: il teorema è già dimostrato, senza neppure approdare in Vietnam. Il secondo tempo, ambientato nel Vietnam in guerra, sembra a tutta prima un corollario, magari possente e tuttavia pleonastico, qualcosa di «già visto». E in parte è così. Nessun campo di battaglia potrà rappresentare a un eguale grado di tensione lo scontro deflagrato in interiore hominis. In quella candida e micidiale scuola della Carolina del Sud, il metallo è già penetrato nella carne e nella mente. La guerra, in fondo, è già stata combattuta. Uccidendo noi stessi, abbiamo già ucciso il nemico.
Ciò nondimeno, anche la seconda parte tiene in serbo una carica di novità. Full Metal Jacket non è un altro Apocalypse Now, e tanto meno un altro Platoon. Non ci sarebbe niente di male in questo, ma Kubrick è abituato ad andare oltre.
Il suo non è soltanto un film sul Vietnam e neppure «il» film sul Vietnam. Trascende il Vietnam per affrontare il problema della guerra alla radice. Ogni moralismo, anche il più nobile dei moralismi pacifisti di cui lo stesso regista era stato indimenticato campione ai tempi di Orizzonti di gloria, risulta superato, bruciato. D'altronde Kubrick, nel Dottor Stranamore, aveva già aggredito, sia pure beffardamente, il problema dei problemi: la bomba atomica. Non gli interessa la «cura Vietnam» alla maniera di Coppola (il quale vi è recentemente tornato sopra, da un altro punto di vista, in Giardini di pietra, sulle esequie dei caduti). Né gli basta l'autobiografismo del reduce alla Oliver Storie. Quel che Kubrick voleva è stato da lui spiegato nell'intervista a Michel Ciment, uno dei suoi esegeti più vicini, pubblicata da "Ciak" nel numero di ottobre 1987, e particolarmente in questo passaggio: «Può essere errato pensare che, mostrando alla gente che la guerra è male, si possa indurla a essere meno incline a combatterne una. Ritengo che Full Metal Jacket suggerisca che c'è più da dire riguardo alla guerra, oltre al fatto che essa sia male. Certamente la guerra del Vietnam fu tragicamente un male fin dall'inizio, ma penso che possa averci insegnato qualcosa di valido. Probabilmente ora staremmo combattendo in Nicaragua se non ci fosse stato il Vietnam. Ritengo che il messaggio trasmesso è che mai s'inizia a pensare alla guerra finché la nostra sopravvivenza non è messa in discussione».
Ora, chi mette in discussione la sopravvivenza dei ragazzi fin dal periodo di addestramento, se non l'«educazione» preventiva impartita in America? «Io sono un duro - dice il sergente - ma sono giusto».
Il che vuol dire che il suo sistema, per quanto brutale, è anche logico. Le reclute - questo è il punto - devono cominciare a pensare alla guerra prima di farla, prima che la loro sopravvivenza sia messa in discussione sui campi di battaglia del Vietnam. Devono trasformarsi da uomini in portatori di morte. Devono venerare il fucile anche sessualmente, come il giovane Buñuel venerava la Madonna nel collegio dei gesuiti. Devono «mettere in discussione» la sopravvivenza altrui, per garantire la propria. Qui è il nodo del militarismo. Ed ecco perché il secondo tempo del film, sull'inferno della guerra, è consequenziale al primo, sul lavaggio del cervello.
«La guerra si è installata nel cervello di ognuno di noi», scrive infatti Gustav Hasford, co-sceneggiatore del film, nel romanzo autobiografico da cui il film è nato. Tutto il cinema di Kubrick - sarà bene ricordarlo - parte da testi letterari, e Full Metal Jacket non fa eccezione. Il romanzo si chiama The short-timers (quelli «dalla ferma breve», in contrapposizione ai «firmaioli», cioè ai militari di professione). In italiano è stato ribattezzato Nato per uccidere dalla scritta sull'elmetto di Joker, il protagonista del film che nel libro racconta la sua esperienza in prima persona.
Raffigurato dall'attore Mathew Modine conosciuto in Birdy di Alan Parker ma anche in Streamers di Robert Altman (che, nella sua eccessiva teatralità, per certi aspetti aveva una tematica abbastanza affine), Joker è apprendista reporter e, in apparenza, è meno condizionato degli altri dall'indottrinamento subito.
Inalbera, è vero, quell'insegna sull'elmetto, ma porta occhiali da intellettuale ed esibisce il distintivo del pacifisti. Un ufficiale naturalmente si scandalizza, e Joker gli risponde citando Jung e la «dualità dell'uomo», la sua duplicità e ambiguità. Ma è come parlare arabo o vietnamita. Ben altri, infatti, sono i referenti culturali che risuonano nel film, dal rock alla canzone di Topolino; i commilitoni assumono pose alla John Wayne o alla Lee Marvin, e c'è perfino un'intervista che ricorda i modelli televisivi.
Lo stile di Kubrick è l'iper-realismo, adottato sul versante teorico come in quello dimostrativo. La violenza dell'addestramento è amplificata da tutto quel candore di locali e di abbigliamenti, ma la sola licenza sulla realtà di Parris Island - ha precisato il regista con la consueta ironia - riguarda proprio la sequenza più esplosiva, che è l'unica infrazione a una «catena di montaggio» esemplare. È la disposizione dei servizi igienici, che Kubrick raddoppia, allineandoli da un lato e dall'altro. «Penso che fosse più somigliante a un film di Buñuel» commenta con divertito orgoglio. Ma è anche un'ambivalenza scenografica, che preannuncia l'ambivalenza dell'uomo tra la pace e la guerra.
Quanto al Vietnam, l'autore di Full Metal Jacket non ha bisogno di esserci stato, e nemmeno di riprodurlo in qualche altra giungla o palude asiatica o sudamericana. La sua lucidità artistica gli consente di «oggettivare» il soggettivismo del romanzo e di «trasfigurare» il Vietnam nel suo studio, trapiantando nei dintorni di Londra, dove risiede da un quarto di secolo, palme spagnole e alberi tropicali artificiali. Ma il suo Vietnam londinese è addirittura più verosimile di quelli di Apocalypse Now e di Platoon. Lo è per quell'iperrealismo del linguaggio, in funzione di idee chiare e basilari. Lo è per quella Da Nang del fulmineo esordio, avamposto di una colonizzazione Usa col suo carico di corruzione e degradazione espresso in una sintesi inoppugnabile. Lo è per quella Hué ridotta a un ammasso di rovine al tempo dell'offensiva del Têt, che fu l'inizio della fine per gli invasori. Il panorama di distruzione urbana, di caccia all'uomo - al «cecchino» - tra le macerie della città rasa al suolo, è un panorama ben noto anche in Europa, e non c'è da stupirsi che Kubrick abbia potuto ambientarlo sulle rive del Tamigi, in un remoto paesaggio industriale fatto appositamente saltare in aria. Senza contare che ciò allarga, «universalizza» il quadro della guerra, al di là dello spazio e del tempo.
Ma che cosa succede in questa cornice inventata e iperrealistica, nella quale si dibattono ex-uomini normali alla ricerca di una normalissima sopravvivenza? Succede un altro paradosso come quello del primo tempo, quando a farsi giustizia era il più debole del gruppo. Qui il formidabile cecchino che ha decimato il plotone dei supermen si rivela una donna, una adolescente, una ragazzina vietcong che, nella sua ansia di sopravvivere, spara esattamente come un marine addestratissimo, e forse anche meglio.
Ferita a morte, impone agli assassini professionali di essere uccisa rapidamente.
Nel finale, Joker marcia alla testa dei superstiti intonando la canzone del club di Topolino, mentre la sua voce fuoricampo gioisce: «Sono vivo, sono un uomo, sono un marine». Che per Kubrick significa: Sono un bambino, sono un essere regredito alla preistoria dell'umanità, sono un primate che ha imparato a giocare alla guerra, come nel prologo di 2001: odissea nello spazio.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006