Mauritz Stiller. Data di nascita 17 luglio 1883 a Helsinki (Finlandia) ed è morto il 18 novembre 1928 all'età di 45 anni a Stoccolma (Svezia).
Regista del primo periodo d'oro del cinema svedese, di origine ebraico-polacca, nato a Helsingfors (Finlandia) nel 1883, morto a Stoccolma nel 1928. Fu il creatore di Greta Garbo e della commedia sofisticata, portò la saga nordica ad altezze che nemmeno Sjòstròm aveva raggiunto. Era stato attore teatrale in gioventù; come attore di cinema interpretò soltanto quattro film, dimostrando di voler reagire al divismo, lui che avrebbe formato la più grande diva d'ogni tempo. Quale regista diresse una quarantina di pellicole tra il 1912 e il '17, prima di affermarsi come un maestro. Stiller aveva un'intelligenza acuta e una formidabile capacità di assimilazione, una sensibilità vivace e insieme raffinata, decadente; e quando esplose, il suo eclettismo toccò vari campi, in ognuno lasciò un solco preciso. Così col dittico di Thomas Graal (1917-'18), interpretato da Sjòstròm, si ebbe la prima commedia svedese di pregio: una commedia eccentrica, che disdegnava la pochade e introduceva una sana ventata di umorismo finnico, e magari inglese, nella grossolana e pedantesca tradizione autoctona. Il canto del fiore scarlatto (1918), che non per nulla era derivato da un romanzo finlandese, fissò il profilo di un rubacuori contadino: lanciò l'attore Lars Ilanson nella sua forma più brillante, innestò una vena sensuale e picaresca sul tronco di un mondo altre volte mistico e fumosamente leggendario. Erotikon (1920), lanciò addirittura un nuovo stile, un nuovo genere di cinema: sarebbe stato chiamato commedia sofisticata, e avrebbe influenzato non soltanto Lubitsch ma lo stesso Chaplin che in Una donna di Parigi imparerà da Stiller il modo dì descrivere con l'ellisse e l'allusione indiretta qualsiasi situazione, anche la più scabrosa. Quella che appare in Erotikon - scrive Franciasco Savio - «è la Svezia irriverente e irresponsabile che non ha conosciuto la guerra, la Svezia che pagherà molto più tardi, con le angosce cui Ingmar Bergman darà voce, la propria aristocratica vacanza, in bilico fra i ghiacci eterni della Lagerlòf e i salotti provvisori di Hjalmar Bergman» (il drammaturgo, s'intende). Ma Stiller si è occupato anche di saghe scandinave, e lo ha fatto mettendo in primo piano non tanto i contenuti letterari e il fervore romantico, quanto il proprio fondamentale amoralismo, la propria indole icastica, la propria plasticità e il proprio ritmo. Così nel reputato Tesoro di Arne (1919), che Savio definisce «un classico involontanio» proprio per il particolare distacco dell'autore dalla materia del romanzo di Selma Lagerlòf. Così nella Saga di Gunnar Hede (1923) e specialmente nella Saga (o Leggenda) di Gòsta Berling (1924), dove l'allontanamento dalla fonte è ancor più cospicuo, poichè soltanto quello che interessa a Stiller viene in piena luce: la sua volontà di risolvere in 'attrazioni' (già alla Eisenstein) i ri~volti sentimentali, la sua noncuranza per la psicologia e il suo entusiasmo per la fotogenia, il suo gusto ambiguo ed emblematico che si sostituisce alla turgida oratoria della scrittrice, la ridimensiona e la corregge - anzi la capovolge - in intuizioni dinamiche e moderne. Le meravigliose composizioni pittoriche, gli straordinari effetti luministici, il montaggio alacre e scandito, l'enigmatico o, secondo i casi, cristallino gioco degli attori (Lars Hanson e Greta Garbo alla sua prima e decisiva prova), tutto ciò consente al regista di recitare il grande epilogo del cinema svedese muto, in un momento in cui esso sta per venire, nelle sue forze migliori, fagocitato da Hollywood. E anche Stiller finirà a Hollywood, lui che per il suo temperamento sarebbe sembrato più adatto di Sjiistròm, il quale in America non faceva altro che rimpiangere la patria. Invece proprio Stiller ebbe a soffrire maggiormente del soggiorno oltreoceano: quando tornò in patria, Stiller non era un uomo professionalmente finito, tutt'altro: era però finito psicologicamente e fisicamente. Ritornò quindi, solo per morire.
Se il cinema nordico fosse tutto sopravvissuto nei suoi film più importanti, e questi avessero avuto e avessero una loro diffusione, sarebbe anche oggi facile a molti riconoscere a quel cinema una vera e propria fioritura, tra le più felici nelle autentiche conquiste del film muto. I due nomi che se ne imporrebbero sarebbero quelli di Victor Sjöström e di Mauritz Stiller, entrambi provenienti dal teatro, e appassionatisi, intorno al 1912, del nuovo mezzo espressivo. Anche in Svezia un regista sfornava allora quindici-venti film all'anno; ciascun film pretendeva otto-dieci giorni di lavoro, forniva poi otto-dieci minuti di proiezione. Nasce la Svenska», che durante la prima guerra mondiale si rafforza. Nel 1918 se ne inizia una singolare fortuna, dovuta anche al nome di Seima Lagerlöf; e bel 1919 Stiller compone Il tesoro di Arne, favorevolmente accolto in ogni Paese.
La «Svenska Bio» s'ingrandisce, diventa la «Svenska Filmindustri» (S.F.), che raggruppa tutte le Case editrici svedesi allora esistenti; e le affermazioni si fanno puntuali, con La carretta fantasma di Sjöström, Il pellegrinaggio a Keevlar di Hedquist, Thora von Decken di Brunius, concluse infine da La leggenda di Gästa Berling di Stiller, che doveva rivelare la Garbo. A Stoccolma, specialmente per le strette vie della città vecchia, capita d'incontrare su questa o quella insegna il cognome Gustaffson, un cognome assai comune, come Bergman, come Lindstrom; tanto comune che la signorina Greta Gustaffson sentì presto il bisogno di sostituirlo con un rotondo e morbido Garbo. Per molti la Svezia, cinematograficamente, sarà poi quella maschera; perché Hollywood era sempre stata molto attenta, e quelle grandi affermazioni della piccola cinematografia svedese non potevano sfuggirle. Importò sopratutto i due registi, Stiller e Sjöström; e con Stiller la giovinetta Garbo unicamente per fare cosa gradita al suo mentore e amico, non supponendo che quella lunga pallida ragazza presto avrebbe estasiato di sé i pubblici dei lue emisferi; e con la Garbo importò altri attori, come Lars Hanson ed Einar Hanson.
Quella precisa retata lì per lì lusingo Stoccolma, ma la impoverì. Cercò allora di importare a sua volta nuovi elementi, di tentare altre vie, non esclusa quella del filmone storico; con risultati piuttosto modesti, compensati poi in parte dall'affermarsi di un nuovo regista, Gustav Molander, che era già stato collaboratore di Stiller. Ma la felice stagione è finita. Anche il ritorno in patria di Victor Sjöstrom, che sembra suscitare nuove speranze, si risolve in una delusione, il regista si è a Hollywood non poco americanizzato, il suo lavoro non appare più schietto, è limitato da formule ovvie, e da tutti gli impensieriti tecnicismi dell'incipiente film sonoro. Il cinema svedese ha compiuto la sua breve parabola. Due nomi ne sopravvivono, e di due maestri. Ebbero il grande merito di rapidamente raggiungere un loro equilibrio, che contemperava risorse spettacolari a umane esigenze, in un ritmo sempre rigoroso, dalla composizione del quadro alla linea della sequenza, e sempre scrutando e rievocando un loro tipico mondo, volti e ambienti di un nord non dimentico di tradizioni, ragioni e succhi europei. Due maestri che firmarono decine di film, fra i quali si ricorderanno Il tesoro di Arne (1919) e La carretta fantasma (1920).
(1954)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957