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Con Paul Auster se ne va un'intelligenza illuminata e garante

Lo scrittore newyorkese era malato, e ha lavorato fino alla fine. "Poeta della grande mela", è uno degli scrittori che ha capito il cinema. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

Paul Auster (Paul Benjamin Auster) 3 febbraio 1947, Newark (New Jersey - USA) - 30 Aprile 2024, New York City (New York - USA).
giovedì 2 maggio 2024 - Focus

Era ebreo, era di New York e ha nobilitato la sua città con la famosa Trilogia, che ha posto Paul Auster nel cartello della letteratura nobile non solo americana. 
Era malato e ha lavorato fino alla fine. Del 2023 è il romanzo "Baungartner". Paul ha voluto congedarsi con una storia d’amore, quello per una donna, Anna, che ha definito l’intera sua vita.
L’ultimo titolo, grande libro, è "4321", 2017. Se si ragiona in termini di storia e di crediti, in quel romanzo Auster presenta tutte le coccarde che descrivono il grande successo. È sempre azzardato, e improprio, stilare gerarchie di qualità, ma se dico che Paul Auster è uno dei maggiori scrittori americani, credo che nessuno si alzi a contraddire; se dico che è “il più grande” allora qualcuno obietterà e farà altri nomi.

Fermiamoci dunque ad affermarne l’eccellenza, senza paragoni. Quella di Auster è la storia di un superdotato. "4321" (2017) è, forse, il suggello di un percorso, un cerchio che si chiude. Lo scrittore lo ha riaperto sei anni dopo, ma la il messaggio non era quello di sempre. Auster sapeva che sarebbe stato l’ultimo.   
Il “penultimo” va ricordato. La trama: nel marzo del 1947 a Newark, New Jersey – guarda caso l’anno e il luogo di nascita dello stesso Auster –, nell’ospedale Beth Israel nasce Archibald Isaac Ferguson, unico figlio di Rose e Stanley Ferguson. Da quel momento la vita di Isaac prende quattro strade immaginarie, simultanee e indipendenti. Quattro identici Ferguson con lo stesso dna, quattro umani che sono lo stesso umano, con vite diverse. Lo spunto è magnifico, certo complesso, ma nessuno come Auster è in grado di svilupparlo. La critica americana lo ha a priori esaltato rilevando “una passione, un realismo e una tenerezza che sorpassano lo stile che conosciamo dell’autore ebreo”. 

Ecco, “ebreo” è fondamentale. Quello status è decisivo, lo sappiamo. 
Se sei ebreo, dovunque tu abbia vissuto, hai dovuto capire al volo, interpretare e difenderti. Sei stato costretto a essere intelligente, più degli altri. E se dal tuo paese sei arrivato in altri paesi, in America, per esempio, allora eri in possesso di una dotazione, di un bagaglio derivante dal vissuto detto sopra e dalla coscienza ancestrale di appartenere a un popolo eletto. Essere dovunque uno straniero dotato ti ha permesso di interpretare e rappresentare al meglio la nazione, la civiltà che ti ha ospitato. Sei avvantaggiato da una prospettiva alta e completa. 
Per questa ragione alcuni dei più grandi autori degli Stati Uniti, non solo di letteratura, sono ebrei. Paul Auster è probabilmente la punta avanzata. A quel pool, chiamiamolo così, appartengono alcuni dei maggiori autori americani. Molti dei quali “acquisiti”. 


Come diceva Woody Allen anche per Auster “New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata” – e la sua Trilogia è incisa non solo nella memoria della letteratura ma anche in quella popolare. Ma Auster ha scritto molto, ha scritto di tutto. Tra le tante definizioni che lo riguardano, per le solite ragioni di spazio, estraggo “poeta della grande mela”, accomunato, in questo, al citato Woody Allen, anche per via della parentela cinematografica. Auster infatti è uno degli scrittori, rari in verità, che ha capito il cinema. Prima ha sceneggiato, poi ha diretto.

Nella mia personale cineteca del cuore c’è Smoke, del 1995. Lo scenario è un crocicchio di New York, una tabaccheria tenuta da Harvey Keitel e frequentata da varia umanità. C’è anche uno scrittore triste (William Hurt) che ha perso la moglie in un incidente. Culture diverse dei due protagonisti. Piccole vicende metropolitane che proiettano significati profondi. E tutti fumano. 
In Smoke, Auster riesce in un virtuosismo cine-letterario quasi impossibile. Per circa cinque minuti Keitel racconta una storia piccola, cittadina. È un primo piano con un leggero movimento della cinecamera a zoommare. Solo parole per tanto tempo. Non reggerebbero se non fosse per lo scrittore Auster e per l’attore Keitel. Nella sequenza successiva la vicenda – una vecchia cieca passa il Natale con uno sconosciuto che crede suo nipote – è filmata, senza parole. Ma con un sostegno potente, il blues rapinoso "Innocent when you dream", cantato da Tom Waits. Scrittura e immagine, parola e silenzio. E musica. Una chimica completa, un grande momento di cinema, esclusivo dono di quel talento superdotato di Paul Auster.


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