Tre soli titoli in vent'anni sono il magro bilancio di Giuseppe De Santis, che risulta tra i primi a essere espulso e mandato al confino dal sistema cinematografico. La garçonnière del 1960, Italiani brava gente del 1964 e Un apprezzato professionista di sicuro avvenire del 1972 ripercorrono e intrecciano tra loro i modelli delle opere del De Santis neorealista, dando l'impressione di una perdita della misura di controllo nei confronti dei materiali. Già negli anni Quaranta e Cinquanta De Santis appare come un regista «eccessivo», pronto a far uso di procedimenti del cinema popolare per ottenere una giusta mescolanza di funzioni conoscitive ed emotive dal suo messaggio, ma nelle ultime opere la bilancia pende sul piano delle funzioni emotive, mentre il discorso, le scelte e gli esiti stilistici subiscono un arresto e una regressione. Questo avviene per La garçonnière, in cui cerca di mobilitare i temi chiave della produzione popolare napoletana, con innesti e contaminazioni coi motivi emergenti dall'alienazione e dalla psicologia e ancor più con il tentativo epico-popolare di Italiani brava gente, dove solo in pochi momenti (dovuti alla splendida interprelazione di Riccardo Cucciolla) la mescolanza tra stili e livelli raggiunge il tono giusto e il giusto equilibrio. La difficoltà a far quadrare le esigenze della coproduzione di grande impegno spettacolare, con le attese politiche e ideologiche, i problemi che il set sovietico gli poneva, quelli degli attori internazionali non adatti ai ruoli, una sceneggiatura a cui avevano messo mano in troppi, non impediscono al regista di rivivere in alcuni momenti e rappresentazioni paesaggistiche la lezione dei grandi cantori della terra del cinema sovietico degli anni Venti riuscire a esprimere, attraverso la molteplicità dei volti e delle parlate dialettali contadine delle truppe italiane lo spirito pacifista dell'internazionalismo socialista, il forte attaccamento a valori legati alla terra, alla conoscenza e capacità di decifrare i segni della natura e del paesaggio.
Se l'opera che racconta il disfarsi delle truppe italiane inviate sul fronte del Don è gonfia di enfasi, il successivo Un apprezzato professionista di sicuro avvenire gioca sul terreno dell'eccesso, della costruzione di meccanismi a effetto, di una elementare contrapposizione della rappresentatività di classe dei personaggi; film politico, come quello di altri autori a cui aveva fatto scuola, giunge fuori tempo, quando ormai il genere è in fase discendente e ne ricicla, con un'evidenza fin troppo elementare, materiali logorati dall'uso. Opera voluta «per ricominciare a fare del cinema, sembra inconsciamente pensata - come ha osservato Farassino - come un testamento, come l'ultima e non riconciliata affermazione di un'idea di cinema e di una serie di temi personali mai abbandonati».
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007