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Rassegna stampa di Gabriele Salvatores

Gabriele Salvatores è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, è nato il 30 luglio 1950 a Napoli (Italia). Al cinema il 21 novembre 2024 con il film Napoli - New York. Gabriele Salvatores ha oggi 74 anni ed è del segno zodiacale Leone.

GIANCARLO ZAPPOLI
MYmovies.it

Ci sono un «prima» e un «dopo» nella carriera artistica (e probabilmente anche nella vita) di Gabriele Salvatores. Lo spartiacque è costituito dalla conquista dell'Oscar come miglior film non in lingua inglese assegnato al suo Mediterraneo. Prima c'era un giovane regista teatrale noto nell'ambiente per il suo lavoro tanto accurato sui testi quanto privo di rispetto reverenziale. La sua versione di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare diventa film con un allora molto noto (grazie al Ligabue televisivo) Flavio Bucci e una Gianna Nannini dotata di tutta la grinta dell'epoca. Se il suo esordio non gode di grande risalto il successo è dietro l'angolo e si fa vivo con Marrakech Express. Il film, con Diego Abatantuono che da quel momento diventerà l'attore culto di Salvatores, è una sorta di manifesto generazionale. I trentenni delusi da una rivoluzione mai attuatasi si riconoscono nel gruppo dei protagonisti cementato provvisoriamente dal bisogno di salvare un amico. Le traiettorie individuali sono diverse (dalla famiglia all'isolamento in montagna); malinconia e nostalgia sono stemperate da note comiche. È un nuovo tipo di commedia che si svilupperà in Turné (con la morettiana Laura Morante) in cui il teatro torna a farla da padrone ma ormai integrato alle riflessioni generazionali. Con Mediterraneo arriva un successo che lo stesso regista dichiarerà inatteso e non del tutto meritato. I temi precedenti ritornano con il bonus di una conferma di stereotipi sugli italiani in guerra che non possono non piacere oltreoceano. Con questo film però tutto sembra cambiare. Al sole delle spiagge greche si sostituisce quello di Puerto Escondido (già in lavorazione al momento dell'assegnazione dell'Oscar) che, a causa anche di un Abatantuono lasciato troppo a briglia sciolta, segna la fine di un ciclo.

BARBARA PALOMBELLI

«Faccio fatica, oggi a identificarmi con un partito, con un leader. Mi piace Piero Fassino quando s’arrabbia, quando ha un soprassalto d’orgoglio, quando risponde serio serio e – come implorava il mio amico Nanni Moretti – dice finalmente delle cose di sinistra. Succede, e sono i momenti migliori, in particolare quando Giulio Tremonti annuncia i suoi conti e assicura che le cose vanno bene: allora s’accende la reazione dei nostri politici e diventano tutti bravi, forti, ci fanno riscaldare il cuore. Era ora! Dopo tanti nomi e nomignoli per indicare il centro-sinistra, poi, l’Unione mi sembra giusto, è un bel nome.»
Gabriele Salvatores, quando lavora a Roma, abita in uno studio nel più bel cortile di via Margutta, restaurato e trasformato in una tana silenziosa e solitaria, adatta al suo inquilino. Le sue mani, lunghe e magre, si intrecciano spesso mentre parliamo e gli occhi chiari – dietro le lenti degli occhiali –sembrano mostrare una timidezza non vinta, nonostante il teatro, il cinema, l’Oscar, i successi e i riconoscimenti. Nato a Napoli nel 1950, trasferitosi a Milano con la famiglia da piccolo, Salvatores era destinato a diventare avvocato, proprio come suo padre Renato. Ci prova, ma non ce la fa a obbedire fino in fondo: «Cominciai a fare spettacolo a scuola, da ragazzo. Al liceo, già nel 1967, le interrogazioni di greco erano state cancellate e sostituite con delle rappresentazioni di gruppo. Una volta, recitammo l’ultimo atto dell’Antigone: la professoressa è uscita dalla classe indignata». Alla facoltà di giurisprudenza della Statale, «arrivai nel Sessantotto, a diciotto anni, incontrai quello che è stato per tanti di noi un fratello maggiore: Mario Capanna, allora capo indiscusso del movimento studentesco. Era più grande, aveva un modo di fare protettivo e rassicurante. Mio padre aveva perso la sua sfida: avevo i capelli così lunghi e mi vestivo così strano che lui, se dovevamo uscire insieme, sceglieva di camminare sul marciapiede opposto, non ce la faceva a starmi vicino. La musica di Jimi Hendrix, vera reincarnazione di Mozart, Frank Zappa e i film di allora, dal Laureato a Il pane e le rose, insieme all’immensa energia umana che ti trasmetteva il movimento, mi portarono verso la politica rivoluzionaria, verso un estremismo anche esistenziale. È stato un passaggio breve, ma forte: per un soffio, tanti di noi, io per primo, non sono finiti nella lotta armata, nel terrorismo o nell’eroina. È un caso, un destino, un rimescolamento di carte: il confine era sottilissimo. Forse, mi hanno salvato proprio il rock, la chitarra elettrica, gli spettacolini che organizzavamo fra noi. Ci dividemmo, a ripensarci oggi, fra chi scelse l’impegno e chi la fantasia, il sogno, una diversa utopia, la voglia di fuga di un’intera generazione, la stessa che ho poi raccontato con i miei film». Il teatro in fabbrica, in strada, nei manicomi: nei primi anni Settanta, a Milano, i ragazzi borghesi dei licei e delle università cercano di scomporre e ridefinire classi e identità. La città della Scala – dove alla prima i contestatori, come si chiamavano allora, lanciano uova contro le signore in pelliccia – inventa il teatro aperto, la nuova cultura affiora dalle rappresentazioni improvvisate, dalle rivisitazioni dei testi classici. «Avevamo un’idea militante del teatro popolare, mettevamo in scena la cronaca, le favole, piombavamo nelle fabbriche occupate con i nostri costumi e le nostre canzoni, erano gli anni in cui l’Italia scopriva Brecht, il Living Theatre. La mia prima sala prove? Al centro sociale Leoncavallo.» Nel 1972, Salvatores fonda il Teatro dell’Elfo: «Avevo ventidue anni, ero un extraparlamentare affascinato dalla non-violenza di Gandhi, iscritto a Lotta Continua, pensavo che la libertà di esprimersi in teatro fosse un diritto di tutti. Ero anche un piccolo imprenditore: dovetti subire, senza fiatare, l’esproprio proletario degli incassi di una settimana. Erano i nostri ragazzi che si portavano via la nostra cassa. Cose che capitavano allora». Sembrano passati secoli. O attimi? Difficile dirlo, senza mescolare ricordi e nostalgia. L’oggi è tutto in quell’immenso televisore al plasma davanti al quale parliamo (eppure, il suo Io non ho paura, passato l’anno scorso in tv, su Canale 5, ha superato il 35 per cento di share). Salvatores ha una sua tesi personale sui danni compiuti da quello strumento: «L’obiettivo perseguito dalla P2 e da Licio Gelli è stato raggiunto: il gusto collettivo è stato appiattito, omologato al livello più basso. Con la strategia dello specchio: accendo il video, e scopro che in ogni fiction, in ogni programma, c’è dentro della gente come me. Ergo: mi sento rassicurato, spento, non ho dubbi sulla società e sulla politica. Il cinema, di cui si ha tanta paura, sconvolge le regole, deforma la realtà, mostra possibilità che l’uomo e la donna che stanno in poltrona davanti alla tv non avevano previsto. La narrazione sfugge alle consuetudini e fa discutere, non rassicura. Ecco perché i potenti di oggi hanno cercato prima di ammazzarlo, poi di comprarlo, infine con il taglio delle risorse lo hanno congelato su alcune persone, allo scopo di evitare che i giovani facciano sperimentazione seria. Un politico di Forza Italia ha detto, di recente: “Gli intellettuali ti sgusciano dalle mani come pesci... “. Ha intuito la forza straordinaria delle immagini viste al buio, in sala. C’è un controllo della cultura che non è censura, ma peggio: attraverso l’imbuto a collo stretto della distribuzione, tu scrivi un film, un libro, suoni musica ma sono gli editori a decidere dove, quando e per quanto tempo potrà essere visto o ascoltato quello che hai fatto. Tassare i cd musicali come bene voluttuario mi sembra una follia, vedrai che prima o poi metteranno una tassa anche sul biglietto del cinema». Fra piazza del Popolo e via Margutta, è facile cadere nel rimpianto della stagione d’oro del cinema italiano. «Il mio film del cuore resterà per sempre Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con Gian Maria Volonté, il più grande di tutti. L’ho conosciuto al Locarno, l’albergo liberty dietro via Ripetta, la notte amava parlare e perdere tempo, sembrava avesse addosso l’impegno che metteva nella politica e nelle sue interpretazioni. Fra i miei primi flash sulla città ci sono anche le immagini di Monicelli, Scola, Scarpelli che giocano a carte – sempre di mercoledì – alla trattoria Otello alla Concordia, in via della Croce. Eravamo all’inizio degli anni Ottanta. Noi, invece, non siamo mai diventati un gruppo, non abbiamo cercato né avuto maestri. Siamo arrivati troppo tardi, troppo giovani per essere – come capitò a Bertolucci – assistente di Pasolini. Moretti lo ha teorizzato, alla fine dei Settanta, con il suo super8, Io sono un autarchico, manifesto di un nuovo modo di intendere il cinema. Lui, la Archibugi, Faenza, Mazzacurati, Piccioni, io stesso: siamo dei solitari. Ogni tanto, Marco Tullio Giordana ci propone di creare una federazione di artisti associati, per rafforzare il nostro lavoro, ma è difficilmente praticabile.»

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