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John Malkovich: la vendetta di un idolo

In Opus - Venera la tua stella l'attore è Alfred Moretti, pop star venerata da più generazioni che fa il suo ritorno dopo trent’anni di silenzio. Dal 27 marzo al cinema.
di Marzia Gandolfi

John Malkovich (John Gavin Malkovich ) (71 anni) 9 dicembre 1953, Christopher (Illinois - USA) - Sagittario. Interpreta Moretti nel film di Mark Anthony Green Opus - Venera la tua stella.
domenica 23 marzo 2025 - Celebrities

Con John Malkovich il tempo si ferma. L’attore ha un fraseggio lento, quel modo di non finire mai una frase, di lasciare tutto sospeso, come in una immaginaria linea tratteggiata che poi improvvisamente riprende e si dirama su un’altra idea. Malkovich è sempre sulla linea di fuga, coltiva il mistero e colleziona i ruoli eccentrici con nonchalance, sempre elegante, sempre ingannevole. Un giorno, forse, scriverà la storia della sua vita. Si siederà alla sua scrivania e come è sua abitudine fisserà il soffitto. Si prenderà il tempo di osservare, uno per uno, gli uomini che ha incarnato sullo schermo e sulla ribalta. Il destino di un attore non è forse la somma dei suoi ruoli? Casanova occupa un posto d’onore in questa sala degli specchi. Per quattro anni Malkovich ha interpretato il veneziano sotto la direzione dello sceneggiatore viennese Michael Sturminger (The Giacomo Variations). Prima sul palcoscenico e poi sullo schermo (The Giacomo Variations), dove lo articola e lo declina. Alla sua collezione, il Visconte di Valmont (Le relazioni pericolose) o l’avventuriero Gilbert Osmond (Ritratto di signora), aggiunge oggi Alfred Moretti, artista culto e pop star venerata da più generazioni che fa il suo ritorno dopo trent’anni di silenzio (Opus). Tra l’esuberanza di David Bowie e i costumi di Elton John, Malkovich disegna un altro seduttore, comico, massone, alchimista. Un genio musicale che ha piantato il suo regno in mezzo al nulla. Intorno a lui una strana setta che lo venera e asseconda ogni capriccio. Come ogni altro suo personaggio, anche Moretti è teatrale, è un’ode al teatro (il suo primo amore). Invitato a corte il suo pubblico - sei giornalisti narcisi - per fare il lancio privato del suo nuovo album, l’artista va in scena. Esagerato, spudorato, colorato, fatale.

 John Malkovich ha vissuto ovunque, ma la sua unica casa resta lo Steppenwolf Theatre, la compagnia di Chicago dove ha iniziato alla fine degli anni ‘70 con una dozzina di amici. Allo Steppenwolf è stato attore, regista, costumista, drammaturgo e scenografo, dando un contributo importante alla ridefinizione del teatro americano contemporaneo. Nel 1984 gira Le stagioni del cuore e Urla del silenzio e il critico Roger Ebert lo elegge “miglior giovane attore della sua generazione”. Ma sarà la sua interpretazione superba di Valmont a offrirgli nel 1988 la gloria che non cercava. Il suo gioco teatrale assicura una base salda al film di Stephen Frears, acclamato dalla critica e dal pubblico. Tuttavia, malgrado una carriera ben avviata (lavora con Woody Allen, Jane Campion, Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni, Manoel de Oliveira), Malkovich fatica ad affermarsi come protagonista, lasciando un segno nei secondi ruoli, tutti ‘cattivi’. Cattivi che gli vengono incontro perché è imprevedibile (Nel centro del mirino, Mary Reilly, Con Air…). Basta guardarlo in azione, non si può mai indovinare l’espressione (e il gesto) che seguirà dietro l’aria zen e lo sguardo obliquo dovuto a un leggero strabismo.
È seducente e pericoloso allo stesso tempo. 

Tra una riprese e l’altra, concilia nei suoi spettacoli l’immagine filmica e lo spazio vivo della scena, si concede il ‘bel canto’, disegna e gioca a fare lo stilista. Il risultato è una collezione per uomo a sua immagine, estrosa, chic e non troppo lontana dai costumi di Alfred Moretti, la sua ultima creatura di stile sullo schermo. Per lui e per Opus, il primo lungometraggio di Mark Anthony Green, Nile Rodgers e The-Dream hanno composto tre canzoni originali. L’interpretazione fluida di John Malkovich fa il resto dentro un film che è un atto di accusa al culto delle celebrità e all’autocompiacimento dei media. A tenere testa a quel mostro di precisione che è l’attore americano c’è Ayo Edebiri, già energica e smagliante in The Bear. Oscillante sui tacchi di una star âgé, l’attore appare sempre più inafferrabile. Del resto Malkovich ama coltivare con grande malizia questo rapporto di estraneità con se stesso. Ma diversamente dal suo ultimo eroe, non ha mai lasciato che il suo status di star prendesse il sopravvento. Il ‘principe Malko’ non impartisce lezioni sui tempi e sull’arte, quello che conta per lui è la forza d’attrazione del personaggio. 


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In foto una scena de Lo zoo di vetro.
Lo zoo di vetro (1987)

Amanda, madre cinquantenne e mostro d’amore aggrappata al suo passato, vive con una figlia timida e storpia, che rinuncia al mondo per un bestiario di vetro, e un figlio insofferente pronto a mollare gli ormeggi, cosa che farà, non prima di aver portato un visitatore a casa … Nello zoo di vetro di Paul Newman, con Joanne Woodward, l’attore da seguire con attenzione è John Malkovich. L’uomo di tutte le audacie, di tutti gli estremi, di tutti gli opposti. All’epoca ha gli anni di Cristo e una sconcertante naturalezza, i piedi a papera e un passo arioso, una voce dolce, quasi sussurrata, che può al contrario risuonare in un teatro come quella di un predicatore in una cattedrale. Un habitué dei bei testi ma capace delle battute più crude. Lo sguardo dice tutto, a partire dal silenzio. Negli occhi di John Malkovich c’è la qualità inquietante che hanno i ‘classici’ (Brando, De Niro, Hoffman, Pacino…), una totale opacità. Inclassificabile negli Stati Uniti, quasi sconosciuto in Europa, è un uomo-mondo: attore, regista, leader di una compagnia. E sarebbe impossibile comprenderlo appieno senza includere il suo lavoro teatrale.


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In foto una scena di Le relazioni pericolose (1988).
Le relazioni pericolose (1988)

Impossibile dimenticare il sorriso famelico del Visconte di Valmont, incipriato dentro un abito preziosamente ricamato. Dopo una preparazione silenziosa, quasi funebre, questo atleta dell’astuzia sfiderà per due ore la Marchesa di Merteuil, un tempo amante, poi complice e alla fine nemica. Per tenergli testa, Stephen Frears assolda John Malkovich, che non farà mai più il male così bene. In un mondo corrotto che sta per crollare, l’attore spezza cuori, seduce l’innocenza e poi la virtù fino a capitolare lui stesso all’amore. Grande signore felino, il cui strabismo traduce la fredda ossessione del predatore, oltraggia la purezza di Michelle Pfeiffer ed entra per sempre nell’immaginario dello spettatore, scalzando il Valmont so british di Colin Firth. Se Malkovich è un seduttore diabolico e crudele, che ama esercitare il potere sugli altri e sul suo stesso cuore, Firth, nella versione di Miloš Forman, è un essere sottilmente tragico, toccato dalla rivelazione del romanticismo. 


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In foto una scena di Uomini e topi (1992).
Uomini e topi (1992)

Degli uomini, dei topi e di una storia d’amicizia tra George (Gary Sinise) e Lennie (John Malkovich), un povero gigante dalla forza terribile incarnato con sensibilità perturbante da John Malkovich. I due compari viaggiano insieme attraverso i grandi spazi aperti della California, cercano lavoro e condividono lo stesso sogno: guadagnare abbastanza soldi per comprare una fattoria, simbolo di libertà e pace. Un sogno americano che non si realizzerà mai. Del personaggio massivo e fragile di John Steinbeck, l’attore fa meraviglie, un discorso primitivo ma intriso di una tenerezza segreta, di una carità che non si predica, che si accontenta di essere. Lennie si inebria ad accarezzare il pelo morbido dei topi e dei conigli, le sue grandi mani sono avide di contatti vellutati. Ma all’improvviso si arrabbia e le sue dita si stringono e uccidono… Malkovich compone con quella forza senza controllo incarnando una creatura brutale e patetica con gli occhi stralunati e la voce infantile. 


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In foto una scena di Ritratto di signora (1996).
Ritratto di signora (1996)

Più sottile di Lezioni di piano, Ritratto di signora rinnova lo spirito tormentato di Un angelo alla mia tavola e Sweetie, che aveva fatto scoprire Jane Campion. Sotto il suo occhio sororale la bruna Ada (ispirata a Jane Mander) e la rossa Isabel (creata da Henry James) affrontano un secolo violentemente patriarcale, ciascuna nel proprio emisfero. In questo grande film, ingannevolmente austero, la febbre pulsa sotto i colletti alti. La giovane Nicole Kidman è imperiale dietro al bianco irreale delle sue gote, sottili come carta velina. Sontuosa e infantile, la sua regina di ghiaccio regna su una schiera di attori eccellenti: Viggo Mortensen, Martin Donovan e soprattutto John Malkovich, nel ruolo che gli riesce meglio, l’ammaliatore. Quasi distaccato dalla borghesia soffocante da cui proviene la protagonista, l’esteta Gilbert Osmond recita l’amore e poi la sposa per interesse e per dimostrarle l’assurdità del libero arbitrio. Un altro ruolo che detona il genere, il melodramma in crinolina. Basta guardarlo entrare in scena per comprendere che Ritratto di signora non sarà una storia d’amore romantica, ma una crudele parodia.


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In foto una scena di Essere John Malkovich (1999).
Essere John Malkovich (1999)

Il suo gusto per l’eccentrico, unito alla sua impeccabile padronanza del repertorio drammatico, ha attirato i registi dell’universo arty. Nel 1999, Spike Jonze gli offre la chance incredibile di interpretare se stesso sul grande schermo. L’attore accetta e brilla in un ruolo schizofrenico che combina i suoi molteplici talenti. Un momento cruciale della sua carriera, in cui diventa chiaro che Malkovich può interpretare tutto, senza perdere un grammo della sua eleganza. Ne approfitterà a piene mani, accantonando spesso progetti ‘seriosi’ per esprimere la sua follia nella commedia. Ad aprire il vaso di Pandora e la sua testa (letteralmente) è la singolare sceneggiatura di Charlie Kaufman, che narra la straordinaria usurpazione di un’identità ed elabora una riflessione warholiana sulla celebrità. Malkovich, oggetto del desiderio al centro di un ménage à trois, interpreta Malkovich come se fosse l’attrazione di un parco di divertimenti freudiano. In questa commedia pirotecnica, l’attore prende atto, con grande intelligenza, di una perdita d’aura: Malkovich non è più una star da guardare, ma un corpo da occupare, come un parco Disney, tra un giro di giostra e un boccone di zucchero filato.


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