Peter Chan colpisce su un un punto di grande attualità ma la sua regia è quasi irriconoscibile in questo noir. Fuori Concorso a Cannes.
di Emanuele Sacchi
Shanghai, anni ’40. Zhan-Zhou, casalinga, è accusata di aver ucciso il marito e di averlo fatto a pezzi. Dopo la sua confessione il caso sembra chiuso, ma le prove che emergono e i testimoni sembrano indicare un’altra verità. Peter Chan, regista duttile che ha contribuito alla grandezza del cinema di Hong Kong ritorna su un caso celebre della storia giudiziaria cinese. Sul piano stilistico il regista è quasi irriconoscibile: molti primi piani e un montaggio serrato, con la livida fotografia di Jake Pollock a dominare il tutto e cercare improbabili accostamenti scenografici a Hopper.
L’effetto desiderato di noir è ottenuto ricorrendo a soluzioni chiassose ed enfatiche, che non giovano né all’elemento estetico del film né a quello narrativo. Le caratterizzazioni dei personaggi sono frettolose e appena abbozzate nonostante un minutaggio ben oltre le due ore, che avrebbe lasciato spazio a un lavoro di cesello. Considerato il lavoro sulle sfumature e sulla psicologia dei personaggi di cui Chan fu capace nei suoi lavori migliori, questo radicale cambio di identità lascia interdetti. Se l’esito voluto era quello di spiazzare lo spettatore e colpire forte su un punto di grande attualità forse l’obiettivo è raggiunto, ma a scapito dell’opera stessa.