La storia della vita di Simone Veil attraverso gli eventi cardine del Novecento. Dal 30 gennaio al cinema.
di Marianna Cappi
Simone Veil, ebrea francese, sopravvive alla prigionia nei campi di concentramento di Auschwitz e Bobrek e alla feroce e logorante “marcia della morte” imposta dalle SS nel gennaio del ‘45, ma la perdita della sua famiglia, la violenza inaudita dell’esperienza e l’orrore per l’ingiustizia della discriminazione non l’abbandoneranno mai. Faranno di lei la prima Segretaria generale del consiglio superiore della magistratura, poi ministro della salute e Presidente del Parlamento Europeo, ma anche una donna, moglie, madre, nonna, tormentata senza tregua dall’incubo dei rastrellamenti e della soluzione finale.
Il film di Olivier Dahan, fortemente voluto dall’attrice Elsa Zylberstein, sceglie di raccontare, appunto, questa dualità, di alternare la figura pubblica e quella privata, e s’impegna in uno sforzo di esaustività, ponendo in parallelo un tempo narrativamente al presente, in cui Veil, già anziana, affronta la scrittura delle sue memorie, e un tempo passato, dalla deportazione, a sedici anni, alla costruzione successiva di una famiglia e di una carriera. Il film assolve soprattutto un compito divulgativo, di trasmissione di un’eredità di grande spessore e coerenza, cui si aggiunge l’intento commemorativo, col ritorno nelle baracche di Auschwitz, dove la memoria privata e quella collettiva si sovrappongono e dove il film illumina senza retorica la condizione della protagonista, attorniata dalla famiglia ma irrimediabilmente sola.