Anno | 2019 |
Genere | Documentario, |
Produzione | USA |
Durata | 92 minuti |
Regia di | Alfred George Bailey |
Attori | Galadrielle Allman, Adam Block, Anton Corbijn, Amelia Davis, Michael Douglas Peter Frampton, Eileen Hirst, Jorma Kaukonen, Kamau Kenyatta, Graham Nash. |
Uscita | lunedì 2 marzo 2020 |
Tag | Da vedere 2019 |
Distribuzione | Zenit Distribution |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | Valutazione: 3,50 Stelle, sulla base di 3 recensioni. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 2 marzo 2020
Il fotografo Jim Marshall cattura i momenti più importanti della storia del rock and roll, dai Beatles e Jimi Hendrix, ai movimenti per i diritti civili e ad alcuni dei momenti più iconici degli anni '60. In Italia al Box Office Show me the Picture - The Story of Jim Marshall ha incassato 516 .
CONSIGLIATO SÌ
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New York, 2010. Solo, in una camera d'albergo, moriva James "Jim" Joseph Marshall. Fotogiornalista indipendente e irrequieto, classe 1936, dal carattere e dalla fisicità alla John Belushi, come lui figlio di immigrati e nato a Chicago. Un accreditato insider, per circa mezzo secolo, dell'ambiente musicale, tra tour e concerti epici, una strenua dipendenza dalle droghe e un momento di inattività per possesso e uso di coltelli e pistole e una pena scontata in carcere ("the lost years", gli anni perduti, si legge sul suo sito ufficiale). Nel '98 aveva incontrato e nominato sua assistente Amelia Davis, che in mancanza di eredi, dopo la sua morte ne gestirà e deterrà l'ingente collezione di stampe e negativi.
Un patrimonio iconografico impressionante di artisti e momenti cruciali prima del jazz e poi del rock, cioè la ricchezza e il cuore del film: Miles Davis che si allena alle corde, Bob Dylan che passeggia con gli amici, Hendrix che dà fuoco alla sua Stratocaster a Monterey Pop o che riprende Janis Joplin con una Super8 in un camerino, o ancora la Joplin in compagnia di una bottiglia di Southern Comfort, seduta sulla sua Porsche psichedelica o che finge di strangolare Grace Slick dei Jefferson Airplane. L'ultimo live dei Beatles a Candlestick Park, San Francisco, 1966. Johnny Cash (e la moglie June Carter) che saluta col dito medio le guardie, i leggendari concerti di Folsom Prison e a quello di San Quentin. Il tour americano degli Stones nel '72 seguito per "Life" (da Marshall definito "pharmaceutical"), i Grateful Dead a Woodstock, l'amico Duane Allman e molti altri protagonisti della controcultura rock statunitense. Una scorribanda armata e ad alta tensione tra giganti, iniziata per caso con John Coltrane (che gli chiese indicazioni stradali per Berkeley sulla strada verso un'intervista, nel 1960, cortesia fatta in cambio della possibilità di fargli qualche foto). Proseguita con circa cinquecento crediti per altrettante cover e scatti a contratto negli studi di Atlantic e Columbia, culminata nell'era del classic rock, tra '60 e '70, e tramontata a contatto con gruppi molto meno eclatanti, proprio mentre Marshall iniziava a presentare i suoi libri fotografici nelle gallerie e la sua capacità di aver colto con passione lo spirito del tempo e la verità degli artisti veniva legittimamente riconosciuto.
Show Me the Picture è infatti anche il titolo del volume fotografico uscito nel 2018 per Chronicle Books e sempre curato da Davis, che è anche coproduttrice e figura tra gli intervistati del film, insieme ai colleghi, i compagni di strada e gli amici stretti.
Tra gli amici compare nel film Joel Selvine, critico musicale del "The San Francisco Chronicle" e curatore di altri tre suoi volumi. O Michael Douglas, conosciuto durante le session sul set del telefilm Le strade di San Francisco (1972-77), e la compagna Michelle Margetts, che lo conobbe da studentessa di giornalismo, incaricata dalla sua università di "stanare" e intervistare quel fotografo famoso che aveva fatto perdere le sue tracce e che pure nel 2004 per la sua prolungata militanza nel music business riceverà un premio honoris causa dai Grammys.
Agli antipodi dell'estetica di Annie Leibovitz - che lo ha definito "il fotografo del rock 'n' roll" - nelle immagini di Marshall i soggetti non sembrano mai in posa e il quadro non è frutto di una costruzione meticolosa ma della fiducia che riusciva a conquistarsi dai suoi soggetti e del suo timing, l'istinto del fermare il tempo nel momento esatto. Ciò s'intende anche per la produzione extra musicale, quando documentò le marce contro la segregazione, il nucleare, la guerra in Vietnam, o le reazioni alla morte di JFK.
Presentato al SWSX nel 2019, opera seconda di Alfred George Bailey (già applicatosi al cantante Gregory Porter), più che un ritratto in profondità di Marshall, piuttosto renitente all'autoanalisi o alla confessione, Show Me the Picture è una celebrazione affettuosa e nostalgica nel senso più sincero all'irripetibilità dell'era analogica, sia in ambito musicale che giornalistico. Anche nelle scelte formali: i raccordi tra le scene, quando in colonna audio entra la voce di Marshall, sono inquadrature dei più classici registratori a nastro magnetico, di audiocassette o led colorati; un altro leitmotiv è la riproduzione di carta stropicciata e di contact sheets, o provini a contatto, cioè le stampe dell'intero rullino in sequenza, su un unico foglio di carta fotografica che contiene tutti gli scatti, permettendo di identificare gli scartati e quelli approvati per la pubblicazione.
Non è solo una forma di feticismo tecnico o un'esigenza di coerenza temporale rispetto alla storia, si tratta anche del modo in cui Marshall concepiva il proprio lavoro: una prossimità, a volte anche amichevole, la consapevolezza di un numero limitato di scatti (come colpi in canna), in assenza di ritocco, e prima ancora di un accordo di non interferenza dello staff dell'artista nello shooting, dal parrucchiere al publicist. L'audio dell'intervista in cui identifica il passaggio tra la sua abituale libertà di movimento e l'imposizione del controllo delle corporation sulle immagini, che ha anche a che fare con la questione del copyright, la proprietà intellettuale dei servizi, in questo senso, vale tutto il film.
Grazie alla moltitudine di fotografie e filmati d'epoca lo zeitgeist in cui si mosse è splendidamente reimpaginato, da The Haight (Haight-Ashbury, il quartiere di San Francisco dove iniziò tutta quella rivoluzione, nel '67) e corre chiaro e ad alto volume per tutto il film il suo entusiasmo traboccante, febbrile, ossessivo per il mestiere, fino alla candida deriva autodistruttiva via cocaina, inequivocabile sul suo setto nasale. Mentre si aggira nei backstage tra tutte celebrità, con tutte quelle Leica M4 perennemente a tracolla, il corpo debordante e generoso di Marshall regala anche una piccola, ultima illuminazione: il debito che ha nei suoi confronti lo strafatto reporter, inventato da Dennis Hopper, in Apocalypse Now.
È un adagio radicato quello per cui grandi fotografi e giganti della scrittura della luce debbano essere buoni samaritani e pie donne tormentate, etnografi in comunione panica coi loro soggetti. Ne smentisce postulato e corollari la figura irregolare di Jim Marshall, cavallo pazzo della summer of love, ragazzo della San Francisco di Jack Kerouac, amico di Johnny Cash e Janis Joplin.
Un fotografo delle leggende del rock, divenuto, a sua volta, una star. Jim Marshall era talmente un'icona, nel suo lavoro, che Dennis Hopper, in Apocalypse Now, si ispirò proprio a lui. A distanza di dieci anni dalla sua morte, ecco un documentario che è un viaggio non solo nella carriera artistica, ma anche per comprendere la sua anticonformista eccessiva unicità.