Un racconto onesto, senza funambolismi. Al cinema.
di Alessandro Castellino, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema
La vicenda di Remi è nota: abbandonato da neonato da una famiglia inglese e raccolto da un coppia della campagna francese, cambia vita quando quest'ultima riconosce che non può permettersi il sostentamento del bambino e dunque lo affida a Vitali, artista di strada che lo "compra" per trenta franchi - per evitargli l'orfanotrofio e per insegnargli a cantare -, dopo essersi accorto del suo talento: una voce celestiale. Inizia così, all'insegna dell'avventura, il viaggio del piccolo, che si ricongiungerà con la casa natìa.
Tratto dal celeberrimo romanzo di Hector Malot "Senza famiglia", questo adattamento (guarda la video recensione) di Antoine Blossier trova il suo baricentro in una lezione che pianta le sue radici nel mondo classico.
"Solo chi soffre impara", così scrisse Eschilo nel suo "Agamennone": nel film il regista sembra non dimenticare questo insegnamento e, anzi, lo pone come fulcro di un film che rispetta la propria fonte, rinnovandosi come racconto di formazione. Un concetto, quello ripreso da Blossier, che permea l'intera opera, nella narrazione così come nella scenografia, anch'essa a cura dello stesso regista: intensi lampi luminosi si alternano quindi a cupe, favolistiche raffigurazioni delle tenebre. Tale avvicendamento trova la sua ragion d'essere nel profilarsi della storia, che progressivamente mostra la curiositas del piccolo Remi, in perenne bilico tra sofferenza (che ritorna, circolarmente, in un continuo abbandono del bambino) e apprendimento.
La tragedia è costitutiva dell'uomo e del bambino e condizione necessaria per la sua successiva redenzione, tradotta nel film dal canto angelico (e, appunto, di liberazione) del protagonista. Remi è, dunque, allo stesso tempo Odisseo - con tanto di cane, fedele e fidato - alla costante ricerca di pericolose avventure, ma tormentato dalla lontananza da casa, e Renzo e Lucia, che soltanto attraverso mille "guai" realizzano la loro volontà.