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Ready Player One, quando il futuro è il passato

Con Ready Player One, Steven Spielberg ritorna sulla sua creazione, fa i conti con la sua eredità e assesta un destro all'industria della nostalgia. Dal 28 marzo al cinema.
di Marzia Gandolfi

Ready Player One

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Tye Sheridan - Scorpione. Interpreta Wade Owen Watts/Parzival nel film di Steven Spielberg Ready Player One.
giovedì 29 marzo 2018 - Focus

Il bestseller di Ernest Cline è un cilindro magico che racchiude i miti pop degli anni Ottanta, i sacri brand, i videogiochi, gli eroi e le icone di una controcultura ormai al limite della deificazione. Per sua natura la materia narrativa si prestava a meraviglia a un adattamento cinematografico, praticamente lo reclamava. La Warner corteggia Edgar Wright, Matthew Vaughn, Christopher Nolan, tutti cresciuti con le referenze evocate dal libro. Tutti tranne lui, Steven Spielberg, che quelle referenze le ha create, che vince l'incarico, realizza Ready Player One e trascende il racconto-compendio (omonimo) di Cline, ode sincera ma priva di orizzonte creativo. A questo punto del viaggio chi temeva l'autocelebrazione viene straordinariamente smentito. Certo gli anni (1975-1995) al cuore del racconto e della cultura di James Halliday, che ha concepito OASIS secondo le sue ossessioni, coincidono con l'età d'oro dell'iconografia spielberghiana ma Spielberg disattende gli ammiccamenti alla sua opera, a eccezione di un T-Rex e della DeLorean di Ritorno al futuro, di cui è produttore.

Partendo dall'omaggio di Cline, l'autore firma un autoritratto, ritornando sulla sua creazione, nascondendosi dietro i suoi avatar (Halliday, Watts e Sorrento) e confrontandosi con la sua eredità e le proprie responsabilità.
Marzia Gandolfi

Se Halliday è lo Spielberg di oggi, demiurgo che ha forgiato l'immaginario collettivo e adesso deve farci i conti, Wade è lo Spielberg di ieri, abitato dal meraviglioso che supera i suoi predecessori e spinge più lontano le sue invenzioni. Tra loro c'è Nolan Sorrento, l'industriale cinico e pronto a tutto per sbaragliare la concorrenza. Tre avatar per l'uomo che ha stabilito le regole del gioco (del divertimento) e che adesso si affronta e si confronta coi suoi dei (l'incontro con Stanley Kubrick all'Overlook Hotel) per raccontarsi meglio. Insomma in Ready Player One non è tanto (e non è solo) questione di nostalgia, al centro del film c'è l'ambiguità della natura di Spielberg nella storia del cinema americano degli ultimi quarant'anni. Gigante industriale e sognatore irriducibile, Spielberg affronta il suo mito, realizza un film radicale e audace, senza dubbio uno dei più personali in cui cercarsi e cercare un erede alla sua altezza. Come Halliday rifiuta di indicarne uno, non spetta a lui farlo, non subito almeno. Prima ha ancora il quinto Indiana Jones da realizzare, il primo musical da pensare (West Side Story) e almeno altri sei o sette universi da costruire.


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In foto una scena del film Ready Player One.
In foto una scena del film Ready Player One.
In foto una scena del film Ready Player One.

Ripercorrere i propri passi non serve soltanto a fare un bilancio del proprio lavoro, a essere in gioco e nel gioco è soprattutto la rappresentazione (cupa e spietata) del divertimento di massa. OASIS è qualcosa di più di un videogioco, è un'autentica realtà bis, un secondo universo dove ognuno è libero di essere quello che vuole. La vita, quella reale, è solo un luogo dove mangiare e dormire, un luogo miserabile di caravan impilati gli uni sugli altri in cui si consuma la mediocrità dell'esistenza. Aiutato da un pugno di eroi tipicamente spielberghiani, Wade Watts parte alla ricerca di tre chiavi nascoste in OASIS dal suo defunto creatore, James Halliday, che nel suo testamento ha promesso di lasciare la sua fortuna e il controllo del suo gioco a chi le troverà per primo. Ready Player One si presenta come una caccia al tesoro under pressure, alternando mondo reale (nel 'sepolcrale' 35 mm) e realtà virtuale (in performance capture). La grammatica del film pesca tra l'energia cinetica delle Avventure di Tintin e di Speed Racer (dei Wachowski) e la coscienza di classe dei western fordiani.

Corse urbane ritmate da un T-Rex o da King Kong, intermezzi spettacolari, cariche guerriere condotte da tutti gli eroi dei videogiochi degli ultimi trent'anni scompaginano e riordinano un'armata di riferimenti che dissimula un impetuoso manifesto estetico e politico. Un colpo ben assestato all'industria della nostalgia che defibrilla cinefili fiaccati da anni di referenze asettiche e di cultura geek degenerata.
Marzia Gandolfi

La nostalgia per Spielberg è indubbiamente un sentimento potente che rincuora soprattutto quando il mondo non è il più felice dei mondi, è un'emozione regressiva a cui il regista si è concesso ma a cui adesso non è più disposto a consacrare tutto il proprio tempo. Immagina allora nel 2045 orde di fan decerebrati che rivivono all'infinito epoche fantastiche e vestono i panni di eroi di cui ignorano le cause. A loro Ready Player One riserva una deflagrazione salvifica e fa un augurio: (ri)trovare nell'uovo l'appetito essenziale per la vita (culturale). È proprio questo a rendere appassionante il percorso di Wade, giocatore incosciente ossessionato da OASIS e dal suo creatore, che comprenderà a sue spese le ripercussioni sulla realtà degli effetti del giocare, cambiando prospettiva sulla creazione che incensa. Nel tempo del dialogo tra il ragazzo e l'imprenditore, che vuole condurlo a sposare la sua causa, Spielberg ci ricorda che Ready Player One non è una dichiarazione d'amore agli anni Ottanta e quanto Hollywood gli abbia fuorviati per adescare meglio lo spettatore compiacente. A quegli anni Spielberg restituisce una dimensione essenzialmente organica.

Curiosità e scoperta diventano i motori del film, i soli antidoti al disincantamento del mondo. Non è per caso che dentro l'omaggio surreale a uno dei registi che hanno contato di più nella sua carriera, Spielberg adotti il punto di vista del neofita, quando la maggior parte dei suoi compagni si destreggia con disinvoltura tra citazioni e richiami. Ma il regista non sa che farsene di quello snocciolare sterile, di quell'elitismo culturale agghindato da collezionismo ossessivo. Ready Player One spinge lo spettatore come il fan alla riscoperta pura del cinema, del videogioco, della vita e delle loro zone di frizione. Senza denigrare il mondo virtuale (il vero contatto avviene nel modo reale ma qualche volta in conseguenza a un primo contatto virtuale) e la pop cultura (che in alcuni casi si può rivelare un'arma di sopravvivenza), Spielberg ci ricorda di non perderci. Dopo il pessimismo di A.I. - Intelligenza artificiale e Minority Report, l'autore gira una science-fiction ottimista che lo riconcilia col simulacro. Ready Player One trova insomma un compromesso tra due realtà, OASIS e il mondo reale, tra due punti di vista, quello dell'artista e quello della politica degli Studios, quello delle opere e del pubblico che se ne appropria. Spielberg, inquieto sulla sua arte ce la affida ("Thanks for playing my game"). Spetta a noi decidere che farne dentro e fuori dallo schermo. Se imprimerla sul cuore o sulla t-shirt.


RECENSIONE

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