Il titolo del film di Paolo Sorrentino indica la seconda parte del dittico e, al contempo, un serie di figure velate. Ora al cinema.
di Lorenzo Ciofani, vincitore del Premio Scrivere di Cinema
Poiché Paolo Sorrentino ci ha abituato a leggere i titoli dei suoi film al di là dell'evidenza, Loro 2 (guarda la video recensione) non può fare eccezione, con quel numero a indicare la seconda parte del dittico e, al contempo, un serie di figure velate. Se Loro 1 si alimentava dell'accostamento tra una pluralità indistinta e uno specifico individuo, raccontando proprio il desiderio di quei loro di poter essere come quell'uno (e non come tutti...), Loro 2 gioca con le immagini del doppio, della coppia, dello scambio, dello scontro.
Loro 2 abbonda di faccia a faccia, dialoghi a tavola, litigate, confessioni tra lui, Silvio Berlusconi, e loro. Reduce dal trapianto di capelli, galvanizzato da una vittoria imminente, circondato da lacchè, Berlusconi sembra indossare una maschera sempre più indecifrabile.
Il fatto che Toni Servillo non gli somigli esteticamente non fa che acuire la dimensione carnevalesca di un film strutturato per atti, incrociando molte possibili forme di teatro (avanspettacolo, cabaret, musical, dramma borghese, café-chantant, teatro civile, assolo). Eppure, come suggerisce parlando degli avversari politici incapaci di interpretarlo, le cose sono molto più semplici di quanto appaiano.
Dopo l'incontro iniziale con Ennio, l'uomo in più parallelo e speculare a Silvio, il piazzista diventato venditore che riflette la propria orgogliosa solitudine nello specchio incarnato dall'altro, quella telefonata alla casalinga mette alla prova la capacità seduttiva del grande tentatore, l'amico di famiglia che vende il sogno di una vita più comoda. È il secondo dei molti dialoghi che proseguiranno fino all'epilogo: tuttavia, senza la presenza dell'interlocutrice, potremmo anche vederlo come un monologo, una sorta di remix della Voce umana di Cocteau, dove l'innamorato cerca disperatamente la voce dell'altro, che in questo caso è l'emblema dell'Italia, "il paese che amo" ovvero una spettatrice, una cliente, un'elettrice ideale. E poi il dialogo è un confronto tra Silvio, l'attore che vuole farsi amare per il bisogno della conquista, e Augusto Pallotta, il personaggio che crea sul momento per non farsi riconoscere. E, ancora, una gara tra il campano Servillo che interpreta il milanese Berlusconi e il milanese Berlusconi che, a poco a poco, comincia a parlare nel napoletano caro a Servillo, senza un'apparente ragione che non sia la vocazione allo sdoppiamento di Loro, di lui, di Sorrentino.