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Dentro la casa dei mille racconti

La narrazione cinematografica secondo Ozon.
di Roy Menarini

In foto Fabrice Luchini e Kristin Scott Thomas in una scena di Nella casa.
Kristin Scott Thomas (64 anni) 24 maggio 1960, Redruth (Gran Bretagna) - Gemelli. Interpreta Jeanne nel film di François Ozon Nella casa.

domenica 21 aprile 2013 - Approfondimenti

In una sua riflessione estemporanea, Enrico Ghezzi ha proposto che il personaggio di Schultz in Django Unchained funga un po' da commentatore in diretta del film e dei suoi avvenimenti: colui che chiosa, spiega e analizza i propri e altrui gesti. Bene, la stessa cosa - e in maniera più esplicita - si può dire del professor Germain nei confronti del materiale narrativo che gli proviene dal giovane coprotagonista (e in fondo dal film stesso) in Nella casa di François Ozon. Un po' come in tanti altri esperimenti narrativi postmoderni - viene in mente il dimenticato Get Shorty - il racconto non solo prende vita secondo il modellamento che gli stessi protagonisti sembrano offrirgli, ma si dipana di fronte ai nostri occhi comprensivo dei commenti di chi lo abita.
Pare evidente che il cinema contemporaneo non faccia altro che ripensarsi, partendo dalle proprie origini (The Artist, Hugo Cabret) o dai propri meccanismi di racconto (Gli abbracci spezzati, snobbato e geniale divertissement di Almodovar). Ozon, grazie alla leggerezza e alla spregiudicatezza che gli sono proprie, imposta il suo film come un banale esercizio di letteratura che cita se stessa, e poi comincia a giocare come il gatto col topo nei confronti dello spettatore. Che ruolo ha il professore nella storia? D'accordo, è un manipolatore manipolato; d'accordo, è il mediocre che si accorge del talento dell'allievo senza accorgersi della sua pericolosità; eppure c'è dell'altro. Egli diventa - e qui si nasconde un probabile tiro mancino di Ozon ai suoi "lettori" - una sorta di critico che analizza in diretta l'operato dell'artista. Cita Pasolini e Flaubert, l'arte di genere e quella più alta, si fa portatore di una visione stantia e conservatrice del mezzo narrativo, mentre il più giovane e disinvolto autore usa i meccanismi della serialità (à suivre..., scrive alla fine di ogni capitolo), crea i cosiddetti "cliffhanger" nei punti essenziali del racconto, lascia col fiato sospeso gli spettatori/lettori, confonde le carte moltiplicando le piste, anche le più morbose - il professore concupisce l'allievo? Rapha ama davvero Claude? Claude ha sedotto Esther? Quante attrazioni incrociate, omo ed eterosessuali, si nascondono tra le pieghe dei personaggi! In questo modo, Ozon - invece che costruire un manifesto programmatico di che cosa sia il racconto - mostra l'esatto contrario, ovvero di quante piste cieche, di quanti luoghi oscuri, di quante latenze silenziose si nutra l'arte narrativa (e il cinema) al suo meglio. Rifuggendo prevedibili riflessioni su arte e vita, o su realtà e finzione, costruisce una grande macchina dell'ambiguità che - questa sì - appare come dichiarazione di intenti e saggio di poetica cinematografica. Allora, forse, anche noi critici dobbiamo lasciarci irretire e sospendere la caccia alle metafore, sembra dirci Ozon, perché ci sono cineasti più astuti di noi. Quando pensiamo di aver visitato la casa del regista con le sue ossessioni, scopriamo che è stato lui a svaligiare la nostra.

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