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Police Story

A.C.A.B., quando il genere salva il cinema italiano.
di Roy Menarini

In foto Pierfrancesco Favino in una scena del film ACAB - All Cops are Bastards di Stefano Sollima.
Pierfrancesco Favino (55 anni) 24 agosto 1969, Roma (Italia) - Vergine. Interpreta Cobra nel film di Stefano Sollima ACAB - All Cops Are Bastards.

lunedì 30 gennaio 2012 - Approfondimenti

Sarebbe davvero un peccato se ACAB di Stefano Sollima dovesse essere osservato solamente come oggetto di polemiche e incomprensioni tra industria cinematografica e istituzioni. Bisognerebbe invece salutare con ammirazione il primo film italiano da molti anni a questa parte in grado di farsi corpo contundente nei confronti delle abitudini narrative ed estetiche delle nostre pellicole. Non solo infatti ACAB gestisce una materia da alto grado di politicità con durezza di sguardo e intransigenza morale, ma riesce a sballottare lo spettatore dentro e fuori il punto di vista dei personaggi, senza per questo risultare ambiguo o contraddittorio. Lo psicologismo e la cattiva gestione del punto di vista da cui osservare gli avvenimenti sono costati parecchio a molti autori recenti del panorama nazionale, spesso in termini di credibilità del mondo rappresentato e di forza narrativa, e specie nel ricostruire epoche recenti (il Sessantotto, il terrorismo, etc.). Questa volta Sollima – basandosi sull’omonimo lavoro letterario di Bonini, senza il quale il film non sarebbe esistito – ci ricorda che "ogni maledetta domenica" ci sono guerre e guerriglie fuori dagli stadi, che l’Italia degli anni Duemila è attraversata da un odio che non si vedeva almeno dalla seconda parte degli anni Settanta, e che di questa pericolosa partita nessuno si accorge se non quando ci scappa il morto o di fronte alle scene di violenza immortalate in diretta tv per qualche manifestazione eclatante.

Il cinema italiano, si sa, fa molta fatica a trasformare in epica ciò che riguarda la cronaca, esattamente la cosa che riesce meglio a Hollywood. In mezzo sta, manco a dirlo, la Francia, che – grazie alla tradizione del polar e alla più recente ondata dei vari Mathieu Kassovitz, Jean-François Richet, Olivier Assayas – ha dimostrato che si poteva raccontare la mala europea e il terrore politico con sguardo aspro e ruvido, senza assolvere né condannare a priori nessuno, esprimendo la violenza per quella che è, un elemento sociale vivo e temibile, che scorre nelle strade intorno a noi, dentro "corpi" dello Stato o della curva apparentemente tribalizzati, pronti ad aggredirci ingiustamente.

Sollima raccoglie la lezione transalpina, e comprende una cosa importantissima: il genere cinematografico non ha obbligatoriamente un valore di conflitto con la dimensione autoriale, né serve a offrire aspetti meramente spettacolari agli spettatori da multiplex. Anzi, è un mezzo espressivo potente ed energico, che prosciuga ogni aspetto trascendente e trascina pancia a terra protagonisti e racconto, dissecca gli orpelli e rinforza l’aspetto pulsionale del film, scuote l’azione e la porta al centro del discorso, penetrando fino al nocciolo del problema, il momento in cui si alza la mano contro qualcun altro: esattamente come il braccio alzato del celerino, col manganello che colpisce più e più volte, finalmente narrato in tutta la sua irriducibilità al conflitto buoni/cattivi, sinistra/destra, ma riportato nel sistema nervoso di un universo, l’Italia 2000, tutt’altro che neutro o trasparente.

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